Suckers
Wild Smile
Mettere il primo piano di un mandrillo in copertina è una di quelle idee talmente terrificanti e masochistiche da far supporre che dietro ci sia una mente geniale. I Suckers, quartetto di Brooklyn al debutto sulla lunga distanza dopo un gustoso Ep, non sono geniali; sono però una band che, nel quadro pop vagamente asfittico di questi tempi, può comunque elettrizzare.
Prodotto da Anand Wilder (Yeasayer), “Wild Smile” cerca l’originalità via mescolamento selvaggio (il mandrillo, Wilder, Wild) di modelli vecchi e nuovi, issandosi su un territorio di art-pop camaleontico e vivace. Si ridà lustro a un tribalismo bianco stile Talking Heads, colorandolo di coralità tipicamente anni zero (Arcade Fire, Yeasayer stessi, Dirty Projectors) e di rifiniture psichedeliche (The Dodos), su toni mediamente nevrotici, frenetici, che si mangiano le unghie, e ritmi spostati e da baccanti.
Le canzoni, in realtà, sono costruite per lo più su strutture fisse, sulle quali però si imbastiscono banchetti di variazioni allegramente psicotiche, in crescendo tesi che mirano all’esplosione finale, dove si manda tutto all’aria. Non mancano gli zig-zag volutamente weird e sconnessi del pop à la page, ma vige in genere una strana simmetria, nervosa, agitata, sempre sul punto di rompersi: così, la melodia resta spesso la stessa all’interno di un pezzo (niente ritornelli, cioè), ma l’interpretazione vocale a due voci la sfrange di continuo. A tratti tiratissimo il falsetto di Quinn Walker, per il resto disteso su un registro rasposo, mentre è più addomesticato Austin Fisher. Ne escono piccoli anthem subdoli, in apparenza persino stupidi, che si insinuano dopo vari ascolti. Trattasi del tipico 'grower', insomma.
La lezione (melodie/isterismo, esuberanza fatta però di spasmi) è un po’ quella dei Modest Mouse, che difatti si sentono, malgrado l’aria decisamente più pop – meno chitarre, più tastiere –, ad esempio in una “A Mind I Knew”, divisa tra un istinto indie-convulso e abbagli disco-pop da dancefloor. C’è anche più sofisticazione rispetto ai rockers di Issaquah, e un istinto più freak: molti arrangiamenti rigogliosi immersi in alticci sing-along fanno quasi trip canadese (“It Gets Your Body Movin’”, “Loose Change”, “Roman Candles”), tra istrionismo un po' camp e nascosti colpi di scena strumentali (tastiere giocattolo, effetti da videogame, fiati, campanelli).
Nessun calo nella scaletta. Eccellenti “Martha” (la loro “Two Weeks”?), scandita da una batteria quadrata e arricchita di trombe mariachi e tastiere caraibiche, “Black Sheep”, dove spunta pure un ritornello, ma cacofonico e incongruo, e il climax da tour de force di “Save Your Love For Me”. “Before Your Birthday Ends” è Prince che torna sulle scene per fare colpo su Pitchfork, mentre “2 Eyes 2 C” sfoggia un’eleganza implosa da delirio, da Wild Beasts in vacanza nella giungla di New York.
Con gli inglesi di "Two Dancers" (animali selvaggi per auto-definizione), tra le migliori proposte recenti in ambito art-pop. Mind the mandrillo.
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