Violens
Amoral
Eighties again, ma con nuovi incroci. Nati dalle ceneri del collettivo newyorchese neo-wave dei Lansing-Dreiden, i Violens debuttano con un disco che re-interpreta l’onda sophisti-pop di metà '80 attraverso le lenti storte e disarticolate del pop di oggi. L’aspetto più interessante sta proprio nell’affiancare delle riprese new romantic calligrafiche al limite del plagio, o comunque ammiccanti a un détournament persino giocoso (questi, per dire, hanno sovrapposto un brano di Washed Out a uno degli Slowdive...), a proprie divagazioni arty in linea con certe esperienze europee (Mew, Everything Everything, Wild Beasts).
Che ai tre piaccia maneggiare materiale di altri è evidente da certi pezzi revivalisti fino alla sfacciataggine, vedi l’esercizio in stile Spandau Ballet di “Full Collision”, lo spasso tra ABC e Wham di “The Dawn of Your Happiness Is Rising”, o il rifacimento dei New Order periodo “Republic”/“Get Ready” di “Acid Reign”. Stucchevole, se non fosse che si tratta di tre canzoni bomba, soprattutto l’ultima, che immerge un ritornello killer in una struttura contorta, piena di meandri e di involuzioni, mentre Jorge Elbrecht imita il tono di Bernard Sumner con un rigore degno di quei sosia delle star che ogni tanto passano in tivù. Tutto normale, allora, se in “It Couldn’t Be Perceived” sembra di ascoltare George Michael. Tutto sovresposto, senza remore.
È in particolare la seconda metà del disco a proporre sonorità più aggiornate, e spesso stridenti con i suoni fedelmente eighties offerti in precedenza. “Violent Sensation Descends” è un indie-pop sporco un po’ drogato che non ci azzecca nulla con quanto sentito prima, mentre “Trance-like Tum” è una soffusa elegia dreamy dalle sfumature notturne; molto Mew, per la verità, come nel futuribile ¾ macchiato shoegaze di “Could You Stand To Know?”.
Il disco, per la verità, è pulitissimo, ma qua e là i Violens non si fanno mancare momenti caciaroni (il finale di “Full Collision”) o rese più sporcate: esempio l’eccellente “Another Strike Restrained”, lasciata friggere in un fuzz pieno di graffi sotto a cui l’eleganza della melodia, però, emerge cristallina e geometrica (niente a che vedere, insomma, con le approssimazioni lo-fi).
Disco che un po’ inganna e un po’ ammalia, come piace fare a molto art-pop sospeso tra revival e famolo-strano che oggi capita spesso di ascoltare. L’impressione è che spicchino, tra tutte queste proposte, quelle che esibiscono di più il gioco ma usandolo, subdolamente, per ricoprire un’anima e una mistica proprie, e spesso tutt’altro che superficiali. Non sempre scatta, nei Violens, questo meccanismo, ma il disco è comunque uno di quelli del 2010 da ascoltare, e la band una di quelle da tenere più d’occhio.
Tweet