Zulu Winter
Language
L'onda partita qualche anno fa nel panorama musicale britannico non si arresta, ma gonfia e cresce, rimestando e rivoltando come un guanto i canoni in voga fino alla seconda metà degli anni zero (quelli del post-punk e degli anni '80). Language dei londinesi Zulu Winter, diciamolo subito, è una bomba, ulteriore gioiello di questo rinascimento del quale da un po' di tempo abbiamo avuto avvisaglie sempre più frequenti, diventate infine certezze e conferme.
L'era post-Radiohead (o post-Coldplay se preferiamo) è stata caratterizzata da una progressiva convergenza verso l'adesione ad un immaginario sonoro comune, che riscopriva territori lasciati in ombra (la neo-psichedelia degli Psychedelic Furs rimaneggiata dagli ultimi Horrors ad esempio) oppure passava direttamente agli anni '90 (lo shoegaze dei Chapel Club, il brit pop dei My Best Fiend). Esistono quindi elementi comuni -non casuali- nei vari Wild Beasts, Foals, Everything Everything, S.C.U.M, Maccabees? Se così fosse non sarebbe azzardato parlare di vera e propria scena (con Londra come base e alcune etichette chiave come Domino, Polydor -alla faccia dell'indie- XL, Arts & Crafts). C'è innanzitutto una sofisticatezza arty che si palesa in una scrittura gonfia, in arrangiamenti ricchi e stratificati, in un gusto decorativo strutturante e mai fine a se stesso. E qui entra in gioco la naϊveté indie che alleggerisce il sound conferendo una notevole fruibilità pop. Il culto del suono -da cui l'attenzione a produzioni curatissime- fa poi leva su quel meta-shoegaze di cui si parlava per Again Into Eyes: layers di chitarra trattati e deformati fino a divenire evanescenti, perennemente intrecciati con gli strati di tastiere e synth. E infine una costruzione ritmica cerebrale e math che non fa che irrobustire lo scheletro dei brani.
Ed eccoci al disco, finalmente. Language si colloca in questo percorso, riuscendo definitivamente -e nel migliore dei modi- ad unire i due estremi estetici della supposta scena: si fondono infatti le composizioni robuste e shoegaze dei Chapel Club con l'art-pop eclettico dei Wild Beasts per un risultato impeccabile, tanto nel songwriting quanto nella resa sonora.
Ce lo dimostra subito Key to My Hearth, brillante opening che si fa largo tra un nugolo di magnetismi sonori per prendere corpo in un exploit melodico a presa rapida, creando due piani intrecciati che si completano a vicenda: uno è quello melodico, quello dei ritornelli danzerecci e delle ritmiche geometriche; l'altro invece è quello delle scomposizioni tonali delle textures finissime e rarefatte che compongono il tappeto sonoro, veri sciami sberluccicanti complementari alla nitidezza degli elementi in primo piano. Il risultato è uno spettro sonoro ricchissimo e una scrittura con pochi eguali. Le stesse impressioni sono confermate dalla successiva We Should Be Swimming, dall'andazzo incalzante subito invaso dalle nebbie evanescenti che sfumano i contorni tanto netti delle architetture sonore, creando riflussi e vuoti d'aria, in un continuo gioco di contrazione e espansione. Non sono da meno Bitter Moon (con le sue costruzioni chitarristiche sopraffine), o le magnifiche Silver Tongue (dove spuntano i Friendly Fires) e You Deserve Better. Un discorso a parte va fatto per uno dei capolavori dell'album: Let's Move Back to Front è l'esempio più calzante per comprendere il valore della proposta Zulu Winter. I Wild Beasts sono qui una fonte esplicita d'ispirazione, ma la composizione è assolutamente inedita: gli strascichi armonici della chitarra sono pennellate liquide su cui scivolano le liriche di Will Daunt, espedienti per aprire le porte ad un'evoluzione che sembra non averne mai abbastanza, in una continua mutazione degli elementi (basi ambient pulsanti, loop puntinisti, schitarrate e fiati..) volti ad un crescendo entusiasmante. Basterebbe questo pezzo per rendersi conto della maturità di una band che è nata grande.
Eppure le sorprese non finiscono qui, concentrandosi in una seconda metà dell'album dispensatrice di brani indimenticabili: la densissima stratificazione sonora della coldplayiana Moment's Drift, l'ennesima variazione sul tema (si parla ancora della band di Hayden Thorpe) di Words That I Wield, o il toccante commiato di People That You Must Remember.
Insomma, siamo di fronte alla perfetta unione tra il songwriting spigliato dei Vaccines e la cura del sound dei Chapel Club, per un ibrido che supera i maestri e apre nuovi orizzonti, fornendo un nuovo caposaldo per l'evoluzione di una scena sempre più stimolante. Il futuro del pop passa da qui, vedremo chi avrà il coraggio (e l'abilità) per vedere e rilanciare. Nel frattempo godiamoci uno dei migliori lavori di questo 2012.
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