Dirty Projectors
Swing Lo Magellan
David Longstreth patriarca in casa Dirty Projectors, perentorio nel rimescolare le carte a proprio piacere, ad ogni nuova produzione (ultimo abbandono: la vocalist Angel Deradoorian; alle pelli, è la volta di Mike Johnson). Artista che, in un’epoca sprofondata nel frastagliamento, che è insieme omologazione, dei modelli culturali, impone a se stesso isolamento assoluto e intensa ricerca (anche esistenziale, alla faccia dell’iperattività odierna) per la stesura del nuovo album, “Swing lo Magellan”. E lo fa rifugiandosi in un ambiente protetto (Delaware County), fuori dalla portata urbana di una NY sempre (questo 2012 lo testimonia in modo sorprendente) molto fertile sotto l’aspetto qualitativo.
Ritrovarsi spiritualmente, tra gli obiettivi (tentativi di redenzione, in solitudine: bibbia e il Loner come compagni, chi più chi meno, salvifici), così come lo era il comporre quell’”album of song, album of songwriting” solo accarezzato nel recente passato – nel mezzo capolavoro di tre stagioni fa, “Bitte Orca”. Registrazioni e ancora registrazioni, tracciando coordinate comuni tra vecchio e nuovo sentire, un brano dietro l’altro: ottanta dalle sessioni. Scremate a dodici composizioni, alla fine; che nella gestalt sono forme estetiche a sé stanti, idiosincraticamente indipendenti, ben più scarne da quel che i nostri ci avevano finora abituati.
Ed è musica, quella raccolta in “Swing lo Magellan”, sì sempre libera di sperimentare, innovare ed innovarsi, ma che agisce attraverso il frontman in maniera meno indiscriminata, certamente più votata verso ideali di compattezza e idee (non proprio pure) di forma canzone.
Tanto è stato l’eclettismo (si veda, su tutti, il ribaltone alt di “Damaged”, con “Rise Above”) attraverso quella maniera avant pop/rock esclusiva utilizzata in passato - infarcita di suoni e coloriture istrioniche, e altamente cerebrali insieme; ma ora i newyorkesi si ripresentano con il loro lavoro più ‘pop’, segnato da un forte aumento del tasso melodico (discorso, a onor di cronaca, già intrapreso nel precedente disco). Non a caso si intuisce (e si dichiara esplicitamente) un approccio youngiano di esprimersi ("He writes these songs from his heart, and so what I have to do as a writer is just write songs from my heart" da un’intervista a Fader).
Una raccolta di canzoni, potremmo dire, sganciate da un qualsivoglia continuum concettuale; forme armoniose che contengono il caos e lo riducono, via spinte che si impongono, o (in misura minore, qui) cedono alle tendenze istintuali di Longstreth e soci. Nel mezzo, movenze ritmiche e beats dal tiro r’n’b, hip hop (Kanye West, Lil Wayne tra le influenze dichiarate) e al limite di certe procedure glitch (in “The Socialites”, unico brano cantato interamente dalla compagna Amber Coffman), unite a melodie ammalianti; stile chitarristico che rifugge i tecnicismi via imperfezioni e impurità consce, e armonizzazioni vocali (meno) esposte (rispetto a “Bitte Orca”), espanse e intense come sempre - benché utilizzate, qui, in misura minore. Il tutto, entro arrangiamenti in netta sottrazione, per stratificazione.
Apocalittica nelle sue visioni decadenti, nel suo essere minimale, e di rara lucidità post capitalistica (<<but now the banks all closed, and nothing gets bigger, the crowd will yet, but the…>>) “Gun Has No Trigger” usa accumulazioni e scariche tensive (nelle armonizzazioni vocali, nel cantato di Longstreth, o nel basso a chiudere le strofe) in maniera pressoché perfetta. Ammaliante, davvero, e dal tocco agreste lo sboccio melodico (Longstreth nelle vesti del miglior Young acustico, come immagine) di “Swing lo Magellan”. E nelle convulsioni ritmiche (tra l’acquatico e il tribale) su groove r’n’b in “About to Die” (e l’ariosità, sfarzosa e ‘inopportuna’, di archi: un altro omaggio al canadese?) si avanza attraverso hand clapping strutturati, aderenti e giocosi in “Just from Chevron” e “Dance for You” (quest'ultima, dichiaratamente ispirata da certo raggea/hip hop jamaicano, molto scheletrico - sentire, su tutti, Gyptian). Intensa, su tutte, la ballata guidata dal piano “Impregnable Question” (con quel suo meraviglioso, da stretta al cuore, movimento centrale sul vuoto; che vorresti non finisse mai), mentre è summa pop “Unto Caesar”, tra vecchio e nuovo stile dirtyprojectiano. Il disco prende il via con le roboanti distorsioni di “Offspring are Blank” ("I think of it kind of a grunge song"), e da lì in poi è gloria senza soluzione di continuità, fino alla presa di coscienza artistica di “Irresponseble Tune” (<<With our songs we are outlawed, with our songs we're alone; but without songs we're lost>>)
Concluso il disco, poco altro da aggiungere. Nella mente, questa certezza: Longstreth tra i pionieri del linguaggio pop contemporaneo; “Swing lo Magellan” lo certifica, definitivamente.
Tweet