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R Recensione

7/10

Jockstrap

Wicked City [EP]

Con il tempo ho imparato a capire che dal conservatorio si può uscire o come perfetti esecutori di musiche altrui senza un briciolo di inventiva propria, oppure come individui socialmente pericolosi che del terrorismo formale fanno una ragione di vita. Non ci sono molti dubbi nel capire a quale corrente appartenga Georgia Ellery, una formazione da violinista jazz, una carriera da attrice underground in rampa di lancio e metà femminile dei misteriosi Jockstrap. È sufficiente ascoltare “The City”: surreale narrazione minimal-pianistica affidata ad una splendida interpretazione che rianima i fantasmi della Regina Spektor antifolk d’inizio millennio, un improvviso glitch di sistema che fa sbriciolare la voce in eterei loop ambientali, infine l’irrompere di un pruriginoso beat industrial che – come in certa esasperata no wave – viene trafitto da un dedalo di tracce vocali sovrapposte, distorte, filtrate, pitchate da un estremo all’altro. Non è nemmeno il momento più ardito dei venti minuti di cui si compone “Wicked City”, ma è senz’altro la transizione più netta, quella che si ricorda con maggiore inquietudine.

Largo alle giovani generazioni che ci salveranno? E chi l’ha detto? Ma soprattutto: salvare da che cosa? Il mondo in cui viviamo merita una soundtrack all’altezza, e quello dei Jockstrap è precisamente il non-suono di chi si crogiola nella bellezza autarchica della condanna: scomposto, non lineare, dada non per chissà quali associazioni misteriose ma per un anelito intimo all’aggressione situazionista, all’imperativo categorico. Mestiere difficilissimo, perché di cazzari che lo fanno strano per un solo gusto egotistico ne è pieno l’universo. L’alchimia tra Ellery e il compagno di ditta Taylor Skye, invece, produce degli aborti post-zappiani di memorabile impatto. “City Hell” decostruisce il baroque pop con stricnina autotune, pomp and circumstance chitarristico da AOR terminale e synth fluorescenti in fast reverse: “Yellow And Green” è un estratto liofilizzato di scrittura per balletto processato da un Atari scassato; “Robert” un patchwork sonico degli orrori, una trasposizione avant (hip) pop delle file cards dove ogni elemento viene portato all’estremo; “Acid”, infine, un retro-soul agghindato da vistose corolle d’archi e reso irriconoscibile da un andamento spastico, a scatti.

In sintesi, due adorabili criminali.

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