Beirut
The Flying Club Cup
Un’album che inizialmente sembra avere molto di meritevole questo The Flying Club Cup, registrato in Canada da Zack Condon, artista originario di Santa Fe e meglio noto col nome di Beirut.
Perchè quando si ascoltano tracce come Nantes o A Sunday Smile, con tutta la loro evocatività cosmopolita e multi etnica, la sensazione è proprio quella di stare ascoltando un grand disco. La voce di Condon è splendida, capace di ondeggiare al meglio sopra questi valzer gonfi, ariosi e densi, ricolmi di sfumature piacevolmente pop e di romanticismo dal sentore puramente francese. Il tutto è poi avvolto da un’estetica barocca, ma mai strabordante o altisonante, anzi al contrario perfettamente ad agio nel suo ruolo di esaltare ed elevare i brani.
E così, se il carillon iniziale di La Banlieu viene sovrastato da ritmi e sonorità balcaniche pregnanti come mai, non c’è assolutamente da rimanere turbati, conviene piuttosto farsi trascinare dal flusso sonoro senza opporre alcuna resistenza.
Anche nei brani più spinti ed eccessivi come In The Mausoleum è facile dimenticare la sovrabbondanza di pomposità per sorridere alla “joie de vivre” che ne trapela, apprezzando i passaggi più delicati che fanno capolino qua e la durante il pezzo.
Oppure in Forks and Knives e in The Flying Club Cup, come non apprezzare la spensieratezza scanzonata dell’ukulele, che a tratti richiama la Somewhere Over The Rainbow di Israel Kamakawiwo, ornata ancora una volta da fisarmoniche, trombe e tromboni?
Il problema è che se queste fossero le uniche tracce dell’album si potrebbe anche smetterla li di scrivere e declamare un ascolto ricco di sensazioni appaganti.
Ma c’è un’altra faccia che fin dall’inizio rischia di venir fuori da tutta questa baraonda, ed è la faccia dell’esagerazione e dell’inconcludenza.
E puntualmente questa faccia viene fuori.
Già Penalty, la sesta traccia, arrivava a turbare un ascolto fino a quel momento perfetto, con la sua altalenante e fastidiosa acredine, senza capo né coda, con quella sua marcetta insulsa e quei violini del tutto inadeguati.
Stessa cosa con l’arabeggiante Un Dernier Verre (Pour La Route) o con la ballata fin troppo melensa di Cherbourg, in cui questa volta l’orchestra abusa un po’ troppo della nostra pazienza, rovinando quella che era stata una buona partenza, a base di piano e di tragico lirismo.
Apollonia abusa di suoni già sentiti sia all’interno di questo album che nei valzer di Yann Tiersen, colmando di riempitivi la solita lamentosa cantilena, denaturandola di tutto il buono che inizialmente poteva voler esprimere.
Lo stesso discorso vale per l’ultima Untitled, rigonfia e impettita di un classicismo e di un lirismo che purtroppo allontanano dai più sobri e solari ritmi balcanici e gitani su cui si sarebbe dovuta concentrare una maggiore attenzione.
Tuttavia il disco nel complesso un sette lo riesce a strappare, grazie ad una buona manciata di brani azzeccati capaci di abbagliare con la loro freschezza e la loro evocatività.
Peccato però che si tratti di un capolavoro divisò a metà, a causa dell'eccesso di ambizione (mettiamola così) del ventunenne Zack Condon…
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