R Recensione

6/10

Ladybug Transistor

Can't Wait Another Day

di

E con questo sono 7. Sette album in poco più di dieci anni di vita, per i Ladybug Transistor, alfieri di un pop cameristico "d'autore" di alto lignaggio e membri di punta del collettivo Elephant 6 (il gruppo condivide tastierista e chitarrista con gli eccellenti Essex Green). Collettivo un pò appannato ultimamente, con gli Of Montreal ingarbugliati nelle melodie criptiche dell'ultimo "Hissing Fauna ..." e gli Apples In Stereo disordinatamente ecumenici di New Magnetic Wonder.

Anche per questo chi scrive puntava molto sui Ladybug Transistor: tra i migliori del mazzo, certamente, con la loro creatività pop sapientemente e piacevolmente retrò, sospesi in un regno melodico immaginato tra classicità solare dei Left Banke e la regalità orchestrale di Burt Bucharach, artigiani cesellatori di melodie preziose e immediate.

Apparentemente in questo Can't Wait Another Day c'è tutto: Gary Olson cala giù come un asso la sua calda voce baritonale, un pò Scott Walker, un pò Stephin Merritt, un pò Richard Hawley, si ricrea immediatamente quel senso di classicità senza tempo che ci ha insegnato ad amare il gruppo, gli arrangiamenti son ben congegnati, archi e tastiere agiscono con tempismo, pronti al mordi e fuggi dove necessario. Eppure.

Sarà forse il caldo estivo che ha definitivamente prosciugato il cuore del sottoscritto. O sarà la bulimia negli ascolti del recensore, che ne ha definitivamente reso impermeabile il padiglione auricolare. Resta il fatto che chi scrive si ritrova, un pò perplesso, a rivivere le sensazioni provate ascoltando l'ultimo degli Zincs. Deja vu sonori epidermici di band affini, apprezzamenti formali e nulla più. Non un solo pezzo in grado di distinguersi. Non una sola melodia in grado di stamparsi nella testa. Il motore è oliato a dovere, ma gira a vuoto.

In altre parole, nel momento in cui il gruppo raggiunge l'apice della perfezione formale finisce col perdersi per strada la cosa più importante: le canzoni. A parere di chi scrive uno sbadiglio lungo quarantuno minuti, che si chiude con la speranza che si tratti solo di un passo falso temporaneo e che l'elefante-simbolo dell'indie pop ritrovi presto la strada di casa.

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