Mike Patton
Mondo Cane
La sporca dozzina del generale Patton sbarca nell'Italia (anti)conformista e surreale, melodica e stravagante, degli anni 50 e 60. E la conquista, da Sud a Nord, brano dopo brano. Camaleontico ed istrionico come Aldo Raine in “Inglorious Bastards”. Per chi due anni fa ha avuto la fortuna di assistere ad una loro esibizione dal vivo questo Mondo Cane è la sacrosanta formalizzazione di un evento discografico tanto atteso quanto estemporaneo. Per chi non sapesse ancora di cosa stiamo parlando, beh, sento di potermi sbilanciare nel dire che questo disco si rivelerà una gradita sorpresa.
Vuole la leggenda che il Mike nazionale si sia perdutamente innamorato del nostro modernariato popular durante il suo primo soggiorno nello stivale. A Bologna, una decina e più anni fa. Mentre cercava di migliorare il proprio italiano ascoltando una radio cittadina che trasmetteva in continuazione vecchi successi. Alcuni dei quali gli sono così rimasti impressi da non riuscire più a liberarsene. Che poi il vecchio Patton, lo sapete meglio di me com'è fatto. Non è tipo, lui, da saper mantenere un segreto, da tenersi una cosa bella per sé troppo a lungo. Presto o tardi, c'è da scommetterci, sentirà il bisogno di condividerla con il mondo intero. Scommessa vinta: visto che, per sfogare quest'ennesima ossessione, non ha esitato a mobilitare l'ennesimo gruppo/progetto musicale della sua odisseica carriera post-Faith No More. Prima un tour nelle piazze e nei teatri d'Italia. Poi, con un po' di ritardo su quanto annunciato, anche una versione in studio, che seleziona l'undici più rappresentativo (dato che c'è aria di Mondiali) di una scaletta in origine molto più corposa.
Accompagnato da un ensemble che annovera grandi solisti nostrani come Roy Paci alla tromba, Alessandro “Asso” Stefana alla chitarra, l'orchestra “Arturo Toscanini” e il coro “Coralli” di Torino, Patton si avvicina a questi classici della “golden age” della nostra musica leggera con profondo rispetto per un artigianato inestimabile e sottovalutato, di cui tanto più oggi sentiamo la mancanza quanto più se n'è persa la fattura (il know how come dicono coloro che non parlando bene la loro lingua pensano sia un segno di distinzione culturale imparare a storpiarne un'altra). Con la sottigliezza d'un chirurgo dell'interpretazione vocale spoglia le composizioni di ogni sovrastruttura estetica e socio-mitologica, riportandone alla luce - aldilà della scontata nostalgia per un'epoca in cui gli orizzonti del made in italy sembravano illimitati - i meriti squisitamente musicali, la grana melodica, orchestrale, poetica, teatrale che è parte integrante, e una volta tanto non deleteria, della nostra tradizione. E lo fa calandosi nei panni del fine dicitore, del mattatore illuminato, mordendo il freno sia del decostruzionismo zorniano che del suo naturale, giullaresco istinto pomp metallaro.
Ed ecco così un inedito “Michele Pattone”, maitre quasi felliniano, imbandire un menù di canzoni deliziose, arrangiate e reinterpretate con un occhio alle versioni originali e un altro a Morricone e al patrimonio concertistico e cinematico degli anni 60. Più un pizzico di italo-jazz retrò quanto basta e quel tocco (lieve, lievissimo) di goliardia pattoniana che non guasta.
Felicemente “morriconiano” è, ad esempio, l'ispirato sipario che, a poco poco, si solleva su quest'operetta italica intitolata Mondo Cane (dal celebre docu-film di Gualtiero Jacopetti e dell'ancor più memorabile colonna sonora di Nino Oliviero e Riz Ortolani di cui Patton, come pure chi scrive per inciso, è un fan dichiarato): quell'intro sottilmente free, furtivamente rumorista, accompagnata dalla lallazione trasognata del coro, che sfocia nel celeberrimo attacco di violini de Il Cielo In Una Stanza. Alle prese con uno dei capolavori assoluti del pop decadente e franco-mediterraneo, Patton e i suoi suoi ne rendono una versione oppiacea e sensuale, a metà strada fra il rilascio da boudoir pre-legge Merlin di Paoli e la grandeur aristocratica di Mina. Decisamente bella. Forse troppo bella. Al punto che per trovare qualcosa che sia alla stessa altezza bisogna scorrere fino alla traccia numero 5. Da un finto Morricone a un vero Morricone d'annata (1962): Quello Che Conta, brano pop scritto dal Maestro per la colonna sonora del film “La Cuccagna” di Luciano Salce e interpretato da un giovane Luigi Tenco in stato di grazia (Morricone, Salce, Tenco tre medaglie d'oro al valore artistico del nostro paese: giustamente osannato il primo, per troppo tempo bistrattati gli altri due). Qui più “morriconiana” (con quel prologo di tromba, farina del sacco di Roy Paci, che è un dichiarato omaggio ai capolavori western del nostro premio Oscar) che “tenchiana”, con Patton che stempera in un armonia virile, elegante e vellutata il groppo in gola e il cripto-esistenzialismo dello sfortunato e geniale cantautore di Cassine.
Dopo due gemme di tal fatta come biglietto da visita sarei quasi tentato di domandarvi come mai siete ancora qui a perdere tempo con questa palla di recensione quando potreste essere già, soldi alla mano, appoggiati al bancone del vostro negoziante di fiducia a fare un bel regalo a voi stessi. Ma vado avanti per quelli di voi che, giustamente, non si fidano di me e vogliono andare fino in fondo a questa faccenda. Anche perché spulciando i restanti nove pezzi di “bella robina” (come direbbe Loris Batacchi) ce n'è comunque a sufficienza per gratificare l'ascolto sulla lunga distanza. Ancora un raro Morricone formato singolo, Deep Down, fra italo-beat ed esotismo lounge; l'inno camp Urlo Negro (poi dice che uno rimpiange il passato: un titolo così, oggi, mica lo potresti più fare; arriverebbe subito uno tipo Maroni a dirti: “Eh no, così no, tre mesi di Daspo, sei uno sporco razzista!”. Io, vero, signor ministro?), dei misconosciuti Blackmen (gruppo beat dotato di una forte e scorrettissima carica proto-punk, secondo i beninformati) che Patton trasforma in un gioiellino screamo; e poi ancora Che Notte! del mitico Fred Buscaglione, con quello swing ipercinetico e futurista che è un veicolo ideale per il cabaret canoro pattoniano, L'uomo che non sapeva amare che sembra Truffaut e invece è Nico Fidenco, una superba 20 Km Al Giorno, meritata celebrazione del “nonnino” del jazz sudista italico, Nicola Arigliano (scomparso proprio quest'anno, un paio di mesi fa), e poi sempre più a sud con la Napoli amara, melanconica, “eduardiana”di Robero Murolo (Scalinatella) e il congedo finale, sempre Paoli ma stavolta con la Vanoni di Senza Fine.
Una lezione di stile, una gioia per le orecchie. La dimostrazione che sotto sotto anche il mefistofelico e mercuriale Patton ha un cuore. Cosa pretendere di più da un disco di cover?
Tweet