R Recensione

9/10

The Beach Boys

Pet Sounds

Un album stravagante

 

Se conosci solo tre accordi di pianoforte, non scegliere Rakhmaninov come tuo modello. Nel 1966 la maggior parte delle band pop facevano propria questa filosofia e lasciavano la musica “seria” alla gente “seria”, ovvero a chi aveva potuto godere di una completa educazione musicale e padroneggiava bene la teoria e la tecnica. Tentativi occasionali di rompere questo confine erano già stati fatti, ma fu Brian Wilson a buttarlo giù e preparare il terreno per il pop barocco, il rock sinfonico, Keith Emerson e gli ELO. Intenzionalmente? Spesso i capolavori vengono sfornati per caso, mentre c’è un’alta probabilità che se entri in uno studio con un atteggiamento smisuratamente ambizioso il risultato non sarà soddisfacente. Pet Sounds è una delle felici eccezioni alla regola. Brian Wilson voleva creare qualcosa di davvero straordinario – ed era assolutamente sicuro che stavolta i risultati del suo lavoro sarebbero stati universalmente salutati come eterni.

 

La cosa che colpisce istantaneamente, dalla prima volta che si ascolta il disco, è la sua stravaganza. Non si era mai sentito qualcosa di simile, e forse non lo si è più sentito. Immaginate un aspirante architetto che non ha mai studiato bene architettura, a cui viene improvvisamente affidato il progetto di un nuovo edificio; e guidato solo dalla sua visione (in senso artistico ma anche letterale, cioè prendendo a tangibile esempio gli altri edifici), nonchè da una certa dose di genio innato, costruisce qualcosa. Una struttura che non avete mai visto, fatta di materiali che non avreste mai pensato potessero essere utilizzati insieme, che vi ricorda qualcosa che non siete in grado di indicare, e che è costantemente sul punto di collassare – ma in qualche modo continua a rimanere in piedi. Quello è “Pet Sounds”.

Cioè, di cosa si trattava davvero? Musica pop? Di sicuro non quella che i Beach Boys hanno prodotto fino ad ora, quella “commerciale”. Se volete la prova che questo non è quel tipo d pop potete guardare alla reazione del pubblico americano dell’epoca: il disco vendette molto meno di “Party!” e segnò il declino economico della band. Colpa di una scarsa promozione? Forse. Ma i Beach Boys erano la band più in voga nelle classifiche americane del 1965: di che promozione avevano bisogno?

Art-rock? Ammesso che abbiamo il diritto di paragonare il disco a un genere che contribuì a far nascere, piuttosto che a cui apparteneva, non è proprio il tipo di musica che ci si aspetterebbe da un album art-rock anni ’60. L’eco della musica californiana si sente ancora troppo. Per ogni brandello di Bach che si possa scorgere c’è una bella fetta di Bacharach; lontano dall’essere una critica, questo conferma la diversità del disco da tutto ciò che ci fosse in giro al momento.

E circa il suo target di riferimento? Ancora, forse, gli adolescenti idealisti e dalle guance rossicce che avevano mandato “Barbara Ann” in cima alle classifiche; i testi sono straordinariamente adatti a ragazzi che, ancora deboli, cominciano a sviluppare sottili strati di autocoscienza e autorivendicazione. Musicalmente, però, l’album trascende quel livello, il che costituisce un’altra stravaganza, dato che successivamente la situazione si è capovolta, dando spesso luogo a un art-rock con testi pieni di allusioni e metafore incomprensibili e un piano musicale che ti fa domandare se non sarebbe stato meglio che l’artista in questione avesse prodotto un libro di poesia invece che un disco.

 

Il contenuto

 

A rimarcare la stravaganza del disco però non si va molto lontano, quindi spostiamoci sull’effettivo contenuto. La maggior parte delle canzoni farebbero parte della categoria “ballata”, specialmente se ascoltate separatamente, ma nel complesso il disco non ha il tipico tocco da ballata – e non perché le canzoni siano sostenute piuttosto che pastose, o perché anche quelle più pastose si trasformino inaspettatamente in feste di suoni convulsi; ma perché “Pet Sounds” è, dopotutto, una “teenage symphony”, e nessuno ha mai chiamato “ballata” una musica sinfonica, qualunque sia la chiave in cui è suonata. E poi scrivere un album di ballate era certamente quanto di più lontano dalle intenzioni di Brian Wilson. “Wouldn't It Be Nice”, ad esempio, comincia con un bell’intro di arpa, diventa un tormentone pop e sfocia velocemente in una direzione completamente diversa – soffice, senza batteria, e completamente dominata dai cori. Non sarà magari la prima volta che la band sperimenta diverse sezioni in un singolo brano, ma di quegli esperimenti questo brano (e l’intero album) è la versione definitiva. La notizia migliore è che in mezzo alla sperimentazione Brian riesce a non dimenticarsi delle caratteristiche principali della sua musica, i cori e gli arrangiamenti, e porta entrambi ad un livello tutto nuovo. Già dalla seconda traccia, “You Still Believe In Me”, tutti gli assi sono messi sul tavolo: il gioco vocale si avvale di tutti i possibili contrasti tra bassi registri, alti registri, le loro combinazioni. In “Don't Talk (Put Your Head On My Shoulder)” la chimica sonora tra quel pianoforte che sembra provenire dal tuo subconscio, quel basso pulsante, e quelle voci dal potere lenitivo, diventa qualcosa di molto simile a una droga (provate ad ascoltare con le cuffie).

 

Per quanto riguarda l’aspetto tecnico dell’album, moltissimo è stato detto circa tutti i tocchi innovativi che introduce (una batteria sostituita con delle bottiglie etc.), ma visto che più di questo mi interessa l’aspetto melodico, preferisco limitarmi ad attirare la vostra attenzione sulla parte strumentale di “Here Today”. Ci sono tre melodie diverse che si sostituiscono l’una all’altra, e se i Beach Boys non sono stati i primi a farlo su un disco pop allora non so proprio chi è stato.

 

Conclusione

 

Alla fine “Pet Sounds” è certamente meno grandioso di quanto sperasse Brian Wilson, tanto che lui stesso non fu pienamente soddisfatto del risultato finale, o altrimenti non si sarebbe gettato nello sfortunato progetto di “Smile”. Non mi piace mai leggere una rassegna dettagliata di un album track-by-track, e odio scriverne una io stesso, ma se dovessi farlo troveremmo certamente qualche pezzo di calibro minore (alcuni dei brani che cominciano con il pronome di prima persona singolare, ad esempio). Eppure questo è un album veramente, indiscutibilmente grande, e suona un po’ come la visione personale di Brian Wilson di cosa debba essere il paradiso.

Un posto in cui Dio indossa con tutta probabilità pantaloni corti e sogna sentimentali sogni bagnati.

V Voti

Voto degli utenti: 9/10 in media su 31 voti.

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zagor (ha votato 8,5 questo disco) alle 12:30 del 5 settembre 2013 ha scritto:

I may not always love you......4 pezzi monstre ( god only knows, caroline, sloop, nice), il resto meno memorabile. snodo cruciale del pop rock, comunque sia.

Lepo (ha votato 9 questo disco) alle 13:06 del 5 settembre 2013 ha scritto:

Poco da dire, un album fondamentale per la pop music, paradossalmente più per quella inglese che per quella a stelle e strisce. Certe ingenuità di scrittura vengono ampiamente colmate da momenti ispiratissimi, come l'eterna God Only Knows, You Still Believe In Me o Caroline No.

Sor90 (ha votato 10 questo disco) alle 20:42 del 14 settembre 2013 ha scritto:

Capolavoro indiscutibile. Un passo in avanti per la musica pop e uno dei miei dischi preferiti di sempre, of course.

Cas (ha votato 9 questo disco) alle 12:12 del 20 settembre 2013 ha scritto:

ho avuto un rapporto tormentato con questo disco: l'ho dovuto comprare, qualche anno fa, per apprezzarlo a dovere... e si, da allora è cresciuto fino a svelarsi per quello che è. un capolavoro.

ThirdEye (ha votato 8 questo disco) alle 22:53 del 24 novembre 2014 ha scritto:

Indubbiamente un grandissimo album. Oltre che importantissimo. Ma personalmente non mi ha mai fatto impazzire, a parte gemme come 'That's Not Me', 'God Only Knows', 'I Just Wasn't Made...' e la commovente 'Caroline No'....cosa che accade invece con le finalmente pubblicate (benchè irrimediabilmente incomplete...) Smile Sessions..con le sue partiture ubriache, sbilenche e psichedeliche. Me ne sono innamorato perdutamente.

Marco_Biasio (ha votato 10 questo disco) alle 14:02 del 15 maggio 2018 ha scritto:

Il miglior disco pop di tutti i tempi.

Giuseppe Ienopoli alle 10:30 del 19 maggio 2018 ha scritto:

... esagerescion!

"Voglio realizzare il più grande album rock di tutti i tempi" fu il proposito esplicito e testuale di Brian Wilson prima di avventurarsi nelle nuove sonorità di Pet Sounds ... se sia riuscito nel suo intento non è stato ancora accertato.

Personalmente potrei concordare con il giudizio di Paul McCartney che definì "God Only Knows ... la più bella canzone d'amore mai scritta".

Utente non più registrat (ha votato 7 questo disco) alle 14:20 del 25 ottobre 2019 ha scritto:

Indubbiamente un opera influente, ma dal punto di vista emozionale solo "God" e "I Just" mi prendono; la serietà e ampollosità nuocciono in generale all'immagine spontanea e sbarazzina della band (si legga "di Brian Wilson"). Capisco che "oggettivamente" sia l'album migliore dei BB, ma sinceramente preferisco Today!; maggiore concentrazione di classici.

I Beach Boys secondo me sono più band da antologie che da album. Come i Beatles d'altronde

theRaven (ha votato 7 questo disco) alle 14:19 del 27 ottobre 2019 ha scritto:

Boh!? A me questo disco non ha mai detto niente di particolarmente straordinario

Utente non più registrat (ha votato 7 questo disco) alle 8:20 del 26 agosto 2020 ha scritto:

"[...]Pet Sounds è anche uno degli album più sopravvalutati di tutti i tempi" diceva il Sommo. Non volevo crederci, ma col passare dei mesi - ma, ormai posso dire, degli anni - mi sono dovuto rendere conto di quanto questo fatto sia drammaticamente vero.