The National
Boxer
Arrivati al quarto album, i National non deludono le aspettative e confermano le vette compositive raggiunte col precedente, splendido, "Alligator"; a differenza dei concittadini Interpol o di qualsiasi altro gruppo "pilotato" dalla stampa specializzata, il quintetto americano ha saputo costruirsi lentamente un discreto e meritatissimo seguito, grazie anche a grandi performance dal vivo.
Le caratteristiche della band sono sempre le stesse, come conferma l'opener "Fake Empire": voce baritonale e sofferente, accordi di pianoforte in minore che creano un atmosfera notturna e malinconica. Rispetto al passato però il tutto è molto più compatto, soprattutto grazie al batterista Bryan Devendorf, forse il vero protagonista di questo disco: è lui uno dei punti di forza del gruppo, riuscendo a trasformare persino i pezzi più convenzionali (ad esempio "Squalor Victoria" o "Apartment Story") rendendoli interessanti e convincenti, come dimostrato anche dal vivo in occasione delle date italiane del precedente tour.
In "Mistaken For Strangers" sembra quasi di ascoltare gli Editors o uno dei tantissimi gruppi new waveinglesi, se il cantato sofferto e i dissonanti riff di chitarra non portassero la canzone ad un livello superiore; "Brainy" - una delle migliori canzoni indie-pop ascoltate quest'anno - affronta nel testo i consueti demoni del cantante Matt Berninger (alcool, notti insonni, amori finiti e rimpianti), in contrasto con la melodia semplice ma d'effetto.
La ballata "Green Gloves", davvero emozionante, è forse la traccia più riuscita dell'opera: un racconto sulla solitudine e sull'immedesimazione nelle persone amate che non lascia scampo all'ascoltatore e che dimostra quanto il gruppo sia maturato dagli esordi, qui ricordati con la rielaborazione di "29 years" che appare, del tutto stravolta, con il titolo di "Slow Show", buon esempio dello struggente romanticismo di Berninger ("You know I dreamed about you / for twenty-nine years before I saw you").
Nella seconda parte, inevitabilmente, l'album paga una leggera flessione, anche se la qualità si mantiene alta: le chitarre sono protagoniste assolute della dolce "Start a War" e di "Guest Room", che riprende a livello compositivo e lirico le suggestioni di quella "Secret Meeting" che resta - ad oggi - il capolavoro del gruppo.
Nel finale c'è spazio per una comparsata dell'onnipresente Sufjan Stevens, al piano nell'incalzante "Ada", ennesima riflessione sulla vita di coppia e sull'incomunicabilità; la conclusiva "Gospel", racconto di una nottata estiva in città, si fa apprezzare per l'arrangiamento intelligente e non invadente, che richiama alla mente, oltre che la solita tradizone cantautorale americana, anche gli U2 (che pagherebbero oro pur di scrivere una canzone così, di questi tempi). Considerato nel complesso quindi questo "Boxer" è senz'altro un album eccellente che, seppur discontinuo nella seconda parte della scaletta, si spera faccia ottenere finalmente al gruppo tutti i successi che meriterebbe.
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