Kula Shaker
K2.0
Suona un po' di maniera il nuovo disco dei Kula Shaker, dal discutibile titolo K2.0 (maddaaai). Un lavoro che, pur non apportando nessun fondamentale upgrade al suono della band londinese, fornisce uno spolvero delle capacità compositive di una delle realtà più talentuose del post-britpop (il loro primo K non dovrebbe mancare nella collezione di ogni appassionato musicofilo).
Quindi: qualche sitarata di qua (poche, a dire la verità: le più consistenti in Infinite Sun e Hari Bol), più di qualche schitarrata vigorosa di derivazione settantiana di là, e in mezzo molto cristallino savoir faire brit (vengono in mente certi Supergrass o, meglio, i Coral). Ok, sono stato un tantino riduttivo forse, perché oltre alla maniera cè di più: K2.0 suona sì come uno zibaldone, ma si tratta di uno zibaldone energico, capace di passare in rassegna con naturalezza una grande varietà di toni e di farlo conservando una fiammella di vitalità in grado di dare colore ad una scaletta che mai scade nella semplice riproposizione degli antichi fasti.
Si prenda la psichedelia leggera e glam della prima Infinite Sun, la cavalcata Mansuniana di Here Come My Demons, la delicatezza folk di 33 Crows (Donovaniana fino al midollo), la carica elettrica della sessantiana Oh Mary, o ancora il suadente western psichedelico di High Noon, tutti brani sapientemente incastonati tra rassicuranti riferimenti passati ed una creatività nellassemblaggio per niente sbiadita.
Il resto, pezzi che scorrono senza infamia né lode (la briosa Holy Flame, la souleggiante, Let Love B (With U), la pompata e funky Get Right Get Ready), non affossa un lavoro complessivamente piacevole, che riscopre un gusto dellarrangiamento maggiormente conciso, più chitarristico e meno psichedelico. Non saprei dire se i Kula Shaker potranno ritrovare una qualche forma di protagonismo negli anni a venire. Di certo, oggi come oggi, la band non sfigura affatto. Certo, di versioni 2.0 neanche a parlarne.
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