Pete Doherty
Grace-Wastelands
È da quando ho iniziato a interessarmi di musica che sogno il momento in cui poter sbeffeggiare in maniera definitiva e totale quel gran fregnaccione di Pete Doherty. Ricordo come se fosse ieri il boom che fece il primo disco dei Libertines, sulla scia di quello che all’epoca venne denominato “new rock” (comprendendo i vari White Stripes, Strokes, BRMC, Vines, e via dicendo) e che con gli anni è stato più praticamente suddiviso in filoni più marcati come il cosiddetto “revival wave” e un indie più marcatamente brit, più pastoso, giovane e NME-style.
I Libertines sono stati ovviamente i capostipiti per eccellenza di questo secondo nefasto filone, il quale comunque nonostante tutto non è propriamente da buttar via, avendo sfornato alcuni dischi pop-rock freschi e simpatici (penso agli esordi di Franz Ferdinand, Arctic Monkeys, Maximo Park, Fratellis e altri). Filone che però si mostra immancabilmente incapace di uscire dai canovacci del “one album and no more” perché se il “second” arriva puzza immancabilmente di sterco ammuffito.
I Libertines lo dicevamo, sono i maestri di questo canovaccio, diventando un punto di riferimento imprescindibile per una miriade di gruppetti aspiranti allo status di “next big thing” e per una generazione desiderosa di miti generazionali propri, in grado di incarnare icone del passato come Sid Vicious, Jim Morrison e compagnia bella. Se i Libertines rappresentano quindi l’aspetto più estetico e vuoto di un moto più o meno genuino di rinascita rock Pete Doherty è a sua volta la parte più luccicante, estetica e vuota all’interno dei Libertines. La rockstar inglese è probabilmente l’icona giovanile per eccellenza del mondo indie più commerciale (che costituisce ovviamente la maggioranza del pubblico “alternative”) di questo decennio. Dove va lui i locali fanno tutti sold out. E poco importa se poi il concerto, la musica o l’esibizione garantiscano standard qualitativi degni di nota. L’importante è che Pete Doherty ci sia. E che possibilmente succeda qualcosa di anomalo.
Quello che stava con Kate Moss, quello che è perennemente sbronzo e drogato, quello che ai tempi dei primi Libertines ha comunque dimostrato di avere talento. Se poi ci scappa una scazzottata tanto meglio. Poco importa il contenuto musicale. È l’evento in sé, l’immagine, il simbolo quello che conta. È il poter dire “oh la sala era strapiena di coglioncelli snob e ragazzine urlanti e quel pirla è arrivato ed è riuscito a fare solo tre pezzi prima di crollare. Ahahahah, sì davvero! Io c’ero solo per vedere cosa faceva, sai com’è…”
Già sai com’è…
Questo è il problema: Pete Doherty rappresenta tutto quello che odio in questa società, in questo mondo e nella musica di plastica che ottiene successo. A livello sociale è la perfetta rappresentazione di un oggetto-merce che pur essendo totalmente inutile e scadente ottiene successo per il solo fatto di apparire in una certa maniera. A livello musicale è la proiezione di una massa di esseri disgustosamente ignoranti che credono di essere fichi facendo gli alternativi perché portano i vestitini a righe e leggono Nme. Quella fastidiosa gente che crede di essere più “adulta” musicalmente e di saper distinguere la musica di plastica perché conosce e ascolta i Libertines e Pete Doherty quando poi magari non ha mai sentito nominare i Sonic Youth e non saprebbe distinguere una chitarra da un basso.
Pete Doherty è estetica pura, una piattola amorfa scevra di ogni contenuto minimamente musicale o artistico. Il poco talento che aveva l’ha esaurito negli esordi o è stato completamente debellato dal suo stile di vita plurisregolato. La cosa più triste è che ciònonostante trova attenzione mediatica, i suoi dischi vendono, e le masse giovanili lo ergono a modello e mito. Pensando magari di aver di fronte un vero erede del nichilismo punk, ma avendo in verità dinnanzi nient’altro che uno scadente ubriacone vestito con i lustrini e le etichette fiche.
A testimonianza della sua scarsità di talento è stato il percorso degli altri ex-Libertines, usciti fuori con il buon riscontro dei Dirty Pretty Things, evidenziando di fatto dove stessero davvero le qualità musicali nel nucleo originario. Doherty invece si è lanciato nel progetto Babyshambles fatto di dischi davvero mediocri come Down in albion e Shotter’s nation.
Grace-Wastelands è il primo capitolo ufficiale della carriera solista di Doherty. Non cambia poi molto dai Babyshambles in realtà, quindi si può anche definire l’ultima imbarazzante prova di un artista fallimentare. Il disco è un cumulo di brani insipidi e mosci che fanno cadere le braccia (e non solo quelle) già al primo ascolto. Prendete le insipide 1939 Returning e Lady don't fall backwards, ballate romantico-nostalgiche buone per un circolo di vecchiette stagionate. Prendete A little death around the eyes, tutta squallidamente poggiata su una sere di arrangiamenti dotti che paiono usciti da uno dei primi film di James Bond. E cosa dire dello swing di Sweet by and by? C’è da augurarsi che sia solo un omaggio scherzoso piuttosto che un serio tentativo di lanciarsi nel jazz con piano vaudeville e atmosfere da New Orleans anni ’30 in un nuovo ruolo alla “songwriter colto e poliedrico”. E sì che ci prova Doherty a fare il tipo fico che ama spaziare tra i generi, e in parte ci riesce anche. Peccato che quando prova a scimmiottare Syd Barrett (Arcady) travestendosi da menestrello folk sbilenco e spartano non riesca a non suonare imbarazzante e un po’ penoso.
Qualche livello di sufficienza però lo raggiunge ogni tanto Pete, pur non toccando picchi celestiali: Salome è una folk-song apprezzabile per lo sforzo di sincerità che emerge nel tono e nelle variazioni chitarristiche, non particolarmente virtuose ma efficaci. Più o meno la stessa ricetta di Palace of bone, in cui si varia tra country e blues in maniera addirittura graziosa, tra viscidume e sporcizia davvero reali (perché musicali) ed effetti low-fi finemente grattugiati.
Ma sono gocce nel deserto che comunque superano di poco la sufficienza, appena confermate in questo da un’altra manciata di brani più ritmati e vari (I am the rain, New love grows on trees) che però si perdono in un mare di mediocrità. È la povertà il sentimento prevalente che emerge da brani come Sheepskin tearaway (moscissimo duetto con Dot Allison), Broken love story e Last of the English roses: povertà di idee, costante impressione di aver scopiazzato qua e là con scarsissimo successo, pastiche sonoro privo di una qualsiasi direzione artistica.
Un calderone insipido che vi faranno passare per un raffinato piatto esotico, pronti a fregare ancora una volta gli allocchi. Niente di nuovo sotto il sole insomma… Per questo qui si lancia apertamente una crociata contro Doherty. En garde!
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