Suede
Bloodsports
Caro Bernard, ti abbiamo voluto bene, ma per favore stai lontano dai Suede. Produci pure Duffy, produci Kate Nash, produci chi ti pare, spegni come meglio credi le ultime fiammelle del genio infuocato che un tempo risiedeva in te, ma stai lontano dai Suede.
In realtà non ci sarebbe bisogno di chiederlo, mister Butler s'è già espresso con parole poco lusinghiere sull'eventualità di riformare i Suede, quindi il rischio di vederlo di nuovo parte del progetto è quanto mai remoto. Però è anche vero che s'è letta molta gente piagnucolare sul fatto che nella rinata band britannica non ci fosse lui, bensì il presunto clone Richard Oakes (molto presunto e poco clone) e il tastierista Neil Codling.
A questi discutibili puristi domando cosa abbiano compreso davvero dei Suede: la solidità di "Coming Up" e il coraggio di "Head Music" non sono allora serviti a niente? Questa formazione vanta almeno una quindicina di brani classici al suo arco, per quale assurdo motivo avrebbe meritato meno fiducia di una rimpatriata con Butler? Con un Butler per giunta che da una decina d'anni non dà che segni di una salute avvilente a livello creativo?
Tolto il sassolino dalla scarpa e urlato quindi che sono questi, e solo questi, gli unici Suede possibili nel 2013, non si può che accogliere questo "nuovo debutto" con un inchino. Niente fanatismi, visto che è piaciuto ovunque: si è beccato un "universal acclaim" su Metacritic e persino Pitchfork, la webzine che vede la musica britannica come la causa di tutti i mali del mondo, gli ha rifilato una recensione più che positiva.
"Bloodsports" contiene tutto ciò che i Suede sanno fare: brit-pop romantico e decadente, con le chitarre che a tratti distorcono abrasive e a tratti inneggiano epiche, un possente motore ritmico con linee di basso sempre in evidenza, tastiere di contorno ma sempre capaci di dare l'atmosfera decisiva, e una voce ormai leggendaria.
Qualcuno l'ha definito un disco a metà fra "Dog Man Star" e "Coming Up", una definizione non peregrina, se consideriamo il mood. Precisiamo però che non si tratta di un disco del 1995: a produrre è infatti tornato Ed Buller, che nel frattempo non è stato con le mani in mano, lavorando ad esempio su un mega-classico del rock inglese anni Zero quale "To Lose My Life" dei White Lies. Perfettamente a suo agio con l'attualità, Buller aiuta quindi i Suede a andare oltre il mero revival.
Se la formula compositiva è già collaudata (con quelle anomale sequenze di accordi discendenti, uno dei marchi di casa Suede), gli arrangiamenti mostrano nuove possibilità espressive per il quintetto e il suono è sfavillante, non ci stupirebbe se ci dicessero che si tratti delle basi strumentali di una band nuova ispiratasi ai Suede (sta bene che questo non sarebbe fattibile, perché le trame chitarristiche sono troppo peculiari da poterle replicare senza sembrare dei cloni, era una maniera come un'altra per testimoniare la freschezza del tutto).
Le canzoni sono di alto livello, magari non tutte (il lento "For the Strangers", che pure ha riscosso diversi consensi e non si può certo dire sia brutto, dà comunque un po' la sensazione di pilota automatico), ma quando il bersaglio viene centrato l'effetto è feroce. Chi dai due scattanti brani di anteprima, "Barriers" e "It Starts and Ends With You", si fosse aspettato un disco primaverile, dovrà ricredersi: ci sono solo altri due pezzi vivaci come quelli, le altre sei sono ballate struggenti. Brett Anderson canta con una drammaticità rara, era dai tempi "Europe Is Our Playground" che non ci metteva tanto sangue.
Oltre alla "Barriers" di cui sopra, che sembra voler insegnare ai vari Coldplay e Arcade Fire come si gestica davvero al meglio il concetto di coralità, le gemme più luminose del lotto sono "Sabotage" (intro con tastiere e bassone distorto, ritornello celestiale e chitarre che lacrimano acutissime) e il trittico di chiusura, formato da "What Are You Not Telling Me?", "Always" e "Faultlines": una sequenza di brani da depressione suicida, degna di "Dog Man Star", ma con l'orchestra sostituita dai tappeti ambientali di Codling. Da applausi anche lo sforzo di Oakes, che scavalca gli steccati che lo hanno reso famoso, affogando la chitarra nell'eco, ingolfandola di effetti che da animale d'assalto la mutano in una colata di suoni irreali e impalpabili, perfetti corrispondenti dei fantasmi che tremolano nella voce di Anderson.
I sette anni senza Suede sono sembrati davvero infernali. Un mondo senza valori, una vita grigia e noiosa. Ora però non pensiamoci più, i nostri amici sono tornati e speriamo che si fermino per un po'.
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