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R Recensione

8,5/10

Supergrass

I Should Coco

Corre l’anno 1995. Un anno per certi versi musicalmente strano, ambiguo e controverso, soprattutto in terra britannica.

Ormai da un bel po’ di mesi è esplosa una bolla: una bolla di nome Britpop. Descriverla non è semplice, neanche ora che sono passati ben diciotto anni anni. Parliamo di un movimento musicale in grado di focalizzare l’attenzione dell’intera stampa britannica (e non solo) e di mettere in moto la devastante macchina mediatica. I “padroni” del movimento vi saranno sicuramente già noti e arcinoti: Oasis, Blur, Pulp e Suede. Nel 1994 questi gruppi avevano inanellato una serie di successi di pubblico e critica grazie alla pubblicazione di album come “Definitely Maybe”, “Parklife”, “His 'n' Hers” e “Dog Man Star”. L’inizio di una nuova era, dicono molti. Altri no.

Come detto in precedenza, descrivere cosa è stato il Britpop è quanto mai complicato, se ne è parlato tantissimo (forse anche troppo), le opinioni sono ancora tutt’oggi quanto mai differenti tra loro, divise tra chi giudicò quell’epoca una vera truffa musicale e chi invece vide un raggio di luce in grado di illuminare la scena. L’apice e il climax di quel periodo viene raggiunto nell’Agosto 1995, mese in cui Oasis e Blur decidono di sfidarsi apertamente con una battaglia tra singoli, “Roll with it” contro “Country House”. Battaglia vinta dagli snob londinesi capitanati da Damon Albarn, e guerra vinta dai rissosi mancuniani dei fratelli Gallagher più tardi, dopo la pubblicazione dei rispettivi album. In tutto questo trambusto mediatico, la musica è spesso passata in secondo piano, con risse verbali e dichiarazioni in grado di attirare l’attenzione di tutti, mettendo in ombra realtà interessantissime, ma non del tutto. Ecco che arrivano i Supergrass.

Il 15 Maggio 1995, il gruppo formato da Gaz Coombes, Mick Quinn and Danny Goffey (le altre informazioni personali e la storia della nascita del gruppo sono reperibili facilmente nella rete) pubblica il proprio esordio con l’etichetta Parlophone. Ma arriviamo al dunque: “I Should Coco” (traduzione di “I should think so” in slang Cockney) è un fulmine a cielo aperto. L’album è una vera boccata di aria fresca, che presenta tutti i pregi (tanti)e difetti (pochi, se non del tutto assenti) dell’opera prima di un gruppo di amici che decide di inseguire un sogno, e che ha trovato clamorosamente la via giusta.

La partenza in “I’D Like To Know” è una gioiosa entrata sulla scena, che presenta le fortissime influenze di gruppi come The Specials e soprattutto Madness: la base ska ad accompagnare le chitarre impazzite, con un ritornello da cantare a squarciagola. Neanche il tempo di respirare, e ci si accorge subito che le prime quattro tracce sono autentiche mine vaganti, impossibile fermarle, proprio come è impossibile restare fermi ad ascoltarle senza battere il nostro piedi a tempo: il singolo “Mansize Rooster” (che riprende nel suo semplice riff parte dell’assolo dei Blur in “Sunday Sunday”)  precede la celeberrima pianola di “Alright”, conosciuta in Italia soprattutto per essere la sigla musicale di una pubblicità su una nota casa automobilistica; mentre “Caught by the fuzz” è il primo assaggio di punk dell’album.

Il suono è fresco, intraprendente, e che vede nella sua “acerbità” il proprio punto di forza: le chitarre suonano leggere e senza fronzoli alcuni e la voce di Coombes è in forma smagliante con la sua particolare interpretazione nel falsetto, spesso accompagnata da cori che ricordano i Beach Boys aggiornati agli anni ‘90. Ma la musica non è il solo aspetto positivo, e troviamo anche nelle liriche particolari e spunti quanto meno interessanti: i testi sono tipici di baldi ragazzotti inglesi, che parlano della vita di tutti i giorni, tra voglia di raggiungere i proprio sogni, passando per le “solite” risse condite da sane sbornie che no aiutano certamente al momento del risveglio.

Non sono previsti repentini cambi di sonorità, e la rotta è sempre la stessa. Eppure troviamo spazio anche per la sortita psichedelica di “Sofa (Of my letargy)” dove Coombes sembra John Lennon, e la sensazione è quella di ritrovarsi in ambienti familiari à-là “Revolver”.

“She’s so lose” e  “We’re not supposed to do” rappresentano invece i momenti più soft del disco.

I quaranta minuti scorrono che è un piacere, e difatti senza neanche accorgersene ci si ritrova già all’ultima traccia: “Time to go” (titolo quanto mai esplicito) ci saluta con la sua ondeggiante e romantica ballata, che a tratti potrebbe apparire come la traccia fuori posto. E invece, quando tutto è finito, ci si accorge come è bello trovarsi davanti ad un quadro perfettamente dipinto, con influenze chiare (Kinks e Buzzcocks per citarne due)per nulla nascoste, ma che sanno più di sincero tributo che non di perfida scopiazzatura.

L’album raggiunge la vetta della chart britannica, rendendo realtà il sogno di questi spensierati ragazzi. Più avanti le vicende del gruppo verrano momentanamente accantonate dai media per lasciare spazio alla già citata “Band Battle”. Nel corso degli anni il gruppo seppe dar vita ad una carriera senza particolari pecche, già partendo dal successivo “In it for money” (1997), acclamato disco che si discosta dall’esordio per l’uso di atmosfere più cupe e sonorità tendenti al Punk. I vari gruppi Britpop resero strade totalmente diverse tra successi, azzardi e flop (manco pochi), eppure, a distanza di anni e con la mente che ha smesso già da tempo di intendere la musica come semplice tifo da stadio, penso sia plausibile ritenere i Supergrass la band che più di altre ha saputo raccontare la spensieratezza di quell’età, riuscendo ad amalgamare come pochissimi il Rock’n’roll al Pop scanzonato e allo stesso tempo nobile.

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Voto degli utenti: 7,2/10 in media su 6 voti.
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zagor 8/10
Cas 8/10
ThirdEye 7,5/10

C Commenti

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zagor (ha votato 8 questo disco) alle 0:33 del 28 marzo 2013 ha scritto:

"Alright" e "caught by the fuzz" inni generazionali, bel disco.