The Divine Comedy
Bang Goes The Knighthood
E dopo il cricket, un bel bagno ristoratore in bombetta, cravattino e pipa. Naturalmente in compagnia di un Labrador (vederselo accucciato accanto al caminetto non era più abbastanza, evidentemente), con uno champagnino stappato di fresco. Ci sta anche una paperella d’emergenza, in caso si resti troppo in acqua e l’epifanica rugosità dei polpastrelli faccia regredire il nostro anti-eroe allo stadio primale da “Mammina, altri cinque minuti e poi basta. Prometto!”. Con un copertina così, al 101% british, sai già che il disco può far capo a sole due persone: una è il purtroppo misconosciuto Alan Klein (scelta improbabile, considerato che è sparito dalle scene quasi quarant’anni fa); l’altra è Neil Hannon, ça va sans dire.
Tornato dal pic-nic “The Duckworth Lewis Method” in compagnia del commensale Thomas Walsh (Pugwash), Hannon gioca di nuovo la carta dello humour e, zitto zitto, sforna per la novella Divine Comedy Records un grazioso dischetto sprizzante giocosità vaudeville e levità nell’approccio; un lavoro assolutamente in linea col discorso iniziato dal lontano, agrodolce “Casanova”, e successivamente “stemperato” nei toni più languidi del successivo “A Short Album About Love”. Episodi come “The Lost Art Of Conversation” (una “Something For The Weekend” ancor più fischiettante e marziale) e “Assume The Perpendicolar” parlano da soli: raffinatezza melodica alle stelle, sottotesto british pop di squisita altezzosità, gli abituali preziosismi d’arrangiamento (si veda la finezza della tromba in sordina in coda al secondo brano), la solita scaltrezza lirica che tiene a debita distanza i cliché.
Non troverete sorprese eclatanti in questo “Bang Goes The Knighthood”: piuttosto le auspicate certezze circa lo stato di salute di un gigante del cantautorato pop anglosassone, un signore ancora capace di conquistare tanto quando gioca al piccolo Brassens (la Title Track), tanto quando s’immagina un’orchestrina jazz anni ’30 alle prese con progressioni armoniche di stampo “schubertiano” (la splendida “Have You Ever Been In Love”). C’è tanto mestiere, insomma, ma pochi al pari di Hannon sono in grado di gestire questo terrificante grifone a due teste senza farsi mangiare vivi, producendo anzi piccole gemme di acutezza come “Neapolitan Girl” (una specie di skiffle mascherato da easy listening), ispirata al diario di guerra “Napoli ‘44” di Norman Lewis.
Caratteristica comune a diverse canzoni è l’intrusione di elementi o sezioni apparentemente sconnessi dal costrutto principale. “Down In The Street Below”, ad esempio, esordisce con un’elegia orchestrale a là Jimmy Webb (sottile lenzuolo d’organo, pianoforte, archi caldi e vaporosi) ma, in men che non si dica, il clima cambia bruscamente con l’irrompere di una spedita bagatelle. Anche l’incidere da chanson della Title Track è interrotto da un intermezzo paranoico, nel quale il protagonista del brano, insospettabile frequentatore di circoli sadomaso, sputa fuori tutto d’un fiato il suo ingombrante segreto: “You make me feel, you make me feel something/ And feeling something beats nothing at all/ And nothing at all is what I feel/ All the rest of the time/ If someone sees, if someone hears something/ I know it’s coming the fear is making me ill/ But then fear is part of the thrill”.
Ma in fatto di personaggi deviati, il vero “mostro” della situazione è il magnate dell’alta finanza che in “The Complete Banker” (il miglior pezzo alla Ben Folds Five che i Ben Folds Five non hanno mai scritto), si presenta come il responsabile della “seconda grande depressione”, sfoggiando un fare ironico/mefistofelico perfettamente in linea col “Please, let me introduce myself…” con cui Jagger, vestiti i panni di un Belzebù dai modi alquanto sofisticati, creava sconcerto nell’opinione pubblica di fine ‘60s.
Che la crediate partigianeria o meno, a mio giudizio Hannon non può fare un disco brutto: c’è riuscito solo una volta, più di quindici anni fa, e da allora ha imparato la lezione (escludendo il primo album datato 1990, ma quella era proprio a different band). Ciò non toglie che diverse cose su “Bang Goes The Knighthood” non funzionino. Di “Island Life”, tanto per cominciare, potevano essere meglio sviluppati gli elementi country accennati nelle strofe, piuttosto che risolvere il tutto in un moscio quadretto orchestrale con velleità calypso del quale non si comprende bene l’utilità. Diverso discorso per “Can You Stand Upon One Leg”, la cui natura parodistica alla Bonzo Dog Doo-Dah Band appare decisamente fuori misura. “When A Man Cries”, da par suo, vorrebbe rinverdire la tradizione “hannoniana” del lied tragico/metafisico che vede “Snowball In Negative” apice indiscusso, ma non coglie nel segno, forse perché troppo didascalica e “piana” rispetto alle esigenze. “At The Indie Disco”, infine, è semplicemente fiacca.
Di capolavori senza tempo come “Absent Friends”, insomma, ne capita solo uno nella vita, e Hannon già sarebbe da magnificare per esser riuscito a restare su livelli qualitativi altissimi (almeno altri quattro album straordinari e quasi nessuno men che discreto) per quasi un ventennio. Il rilassato “Bang Goes The Kinghthood”, più “leggero” nel modo di trattare la materia (paradigmatica “I Like”), riesce a guadagnarsi, col minimo sforzo, un posticino di tutto rispetto in quell’autentico giardino delle brit-delizie che è la discografia del nostro.
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