R Recensione

6,5/10

Joanna Newsom

Divers

La cura certosina con la quale “Divers” è stato assemblato, vissuto, pensato nelle sue trame filamentose, eguaglia soltanto la sua impalpabile consistenza volumetrica, lo scorrere ruscello arcobaleno di parole e suoni votati all'impermanenza. Così lo ha voluto Joanna Newsom, che ne ha supervisionato produzione e missaggio assieme a Steve Albini e Noah Georgeson. Per gli arrangiamenti, sui quali pure ha avuto - come sempre - l'ultima parola, si è avvalsa degli apporti di una cerchia ben ponderata di collaboratori, tra cui: il compositore Nico Muhly (nome senza dubbio familiare a qualsiasi indie-appassionato, ma che ha messo lo zampino pure in campo r&b con la mini-partitura d'archi per la miliare Climax di Usher), Dave Longstreth (Dirty Projectors), nonché il fidato Ryan Francesconi.

Sotto molti aspetti, ci si trova innanzi al trait d'union tra l'assalto sensoriale di “Ys” (2006) e l'eclettica compostezza di “Have One On Me” (2010): persino la voce si ritaglia uno spazio equidistante dall'irrequietezza (i maligni la definirebbero “gallinacea”) del primo tomo e dal tono più pacato sfoggiato sul secondo. Compaiono sintetizzatori e tastiere analogiche (si ascolti il finale di You Will Not Take My Heart Alive), senza che ciò comprometta il fascino arcano/fiabesco di un chamber pop in cui confluiscono “segni” appartenenti a tradizioni folkloristiche d'ogni tempo e luogo. In Same Old Man (interpolazione di un brano di Karen Dalton dallo stesso titolo, a sua volta derivante dal tradizionale Old Man At The Mill) gli Appalachi della “old time music” s'intravedono come cartolina spedita da un luogo d'incubo dominato da modulazioni quasi dark ambient, laddove il cantautorato di Waltz Of The 101st Lightborne fa' tappa a Nashville e sbuca, birichino, nell'Irlanda del tardo '800. Goose Eggs sposa senza sforzo country-rock e musica barocca, beneficiando d'ogni tipo d'intrusione strumentale (rhodes, organetto, chitarra) e soffrendo un tantino la logorrea verbale di Joanna.

Il pianoforte per lunghi tratti spodesta l'arpa come strumento-guida (The Things I Say, il vaudeville deliziosamente accessorio di Sapokanikan, il congedo orchestrale “a-la-Kate BushTime As A Symptom), pure se è quest'ultima a tessere le fila della spettrale/elegiaca A Pin-Light Bent e di una Title Track mai così “reichiana”, a dimostrazione di quanto il minimalismo resti la procedura compositiva - tra le tante utilizzate - con cui in cui la Newsom ha più familiarità. I momenti forti sono soprattutto tre: Anectodes, la cui grazia rinascimentale sfocia prima in marcetta, poi in paradosso temporale synth-driven, confluendo in un gioiellino di scrittura progressive-folk; la già citata Same Old Man; il carillon “motorizzato” di Leaving The City (molto alla Alt-J, in effetti) dove l'intrusione del ritornello avviene per gradi, con le sembianze di un'unica frase melodica ripetuta in crescendo a cui si uniscono batteria e tastiere (davvero originali le timbriche: una specie di mellotron settato su un registro simil-fiatistico che non credo d'aver mai ascoltato).

Il rischio, sempre dietro l'angolo, è di perdere il filo del discorso per l'ansia di voler dire troppo. D'altro canto l'eccentricità “controllata”, qui come in ogni altro momento del repertorio della Newsom, è cifra stilistica. Stavolta, anzi, l'imperativo sembra sia stato compattezza: due anni di lavoro per concentrare in uno spazio contenuto (52 minuti) il paesaggio interiore di una cantautrice che ci aveva abituati al gesto megalomane, e che ora (ri)scopre il potere terapeutico della composizione (il discorso sarebbe molto articolato, ma rimando ad altra sede). Sicuramente un passo in avanti rispetto alla sloppiness di “Have One On Me”, per quanto non riesca a perderci la testa. Una spiegazione? Ci provo.

Ys” era una sorta di rituale psicofisico, scandito dagli archi “controintuitivi” (bellissima definizione, letta in rete) di Van Dyke Parks e dall'unicum arpa/voce che riplasmava accenti pre-war folk della “old, weird America” in semantica postmodernista. Un vertice oltre il quale non riuscivo a intravedere un “dopo”. Ecco perchè rimasi tutto sommato deluso dal triplo mastodonte che seguì: alle mie orecchie testimoniava l'impossibilità (o perlomeno la difficoltà) di ricondurre quel flusso tempestoso a una forma-canzone dai contorni netti - come poteva essere quella esposta in “The Milk-Eyed Mender” (2004) - che sopravvivesse a sé stessa, alla propria natura travagliata. A lungo mi sono interrogato sul motivo di tanta insoddisfazione, finendo col radunare considerazioni approssimative quando non contraddittorie: meno focalizzato/incisivo, più dispersivo; scrittura non agli stessi livelli, nemmeno quando emulava strutture facilmente riconducibili al suo predecessore (ma come, non doveva essere “diverso”?). Mi sentivo una mosca bianca, specie nel confrontarmi con altri estimatori di “Ys” i quali, quasi inconsapevolmente coalizzati, ne decantavano le lodi.

Ancora non ho le idee chiare, se non sul fatto che, a scapito di tutta la buona volontà, mi era impossibile non identificare in toto l'artista con una precisa tappa del suo percorso: il momento dove aspirazioni e risultati - così come li interpretavo - si compenetravano e diventavano cosa sola (lo stesso mi era accaduto a proposito di Roy Harper e il suo “Stormcock” (1971), curiosamente l'album che la stessa Newsom definì come ispirazione primaria di “Ys”). E' a questa valutazione, tutto sommato scontata, che devo aggrapparmi per giustificare il “contatto” solo parziale con questo “Divers”, nonostante il suo charme sia tangibile. Ne avverto la densità e il gusto pur scivolandomi tra le dita come miele, e come miele riesco a consumarlo solo a piccole dosi, senza troppa convinzione. Evidentemente non sono un “vero” estimatore della musicista californiana, ma solo di un suo disco. Un po' mi dispiace, giacché i “veri” estimatori, con buona probabilità, saranno soddisfatti anche a questo giro.

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Voto degli utenti: 8,5/10 in media su 1 voto.
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C Commenti

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Marco_Biasio alle 16:33 del 9 novembre 2015 ha scritto:

I primi ascolti mi trovano perfettamente d'accordo con te: è un'opera, per certi versi, transitoria. D'altro canto non poteva fare un disco molto diverso da questo, dopo il gigantismo di Have One On Me - di cui, in fondo, rappresenta una versione sintetizzata, ma non "volgarizzata". Sul giudizio che dai del triplo: si potrebbero prendere a prestito le parole che Bachtin utilizza per Dostoevskij e dire, quindi, che la sua è una polifonia autocreante, una scrittura policentrica in perenne fieri, uno stile plurifocale dove l'artista occupa solo una delle tante posizioni, e le coscienze strumentali e verbali da lui ideate spontaneamente interagiscono con loro. Capisco le difficoltà, ma a me piace così. Aspetto comunque per votare. Grande recensione. P.S. Dove sono finiti tutti gli estimatori della Newsom di qualche anno fa?

fabfabfab alle 18:50 del 9 novembre 2015 ha scritto:

Sono morti di noia. Non credo mi avvicinerò ancora alla Joanna. Già col precedente mi aveva sfinito.

Paolo Nuzzi alle 11:43 del 10 novembre 2015 ha scritto:

ahahahahaha! Count me in.

gull (ha votato 8,5 questo disco) alle 21:40 del primo marzo 2016 ha scritto:

Io mi ritengo un estimatore della Newsom. Questo l'ho preso con grave ritardo, avendone letto recensioni (come questa) non proprio entusiaste. A me piace da morire anche Divers, come il precedente Have One On Me. Non concordo, quindi, con nessuno di voi. Qui siamo, nuovamente, a livelli di scrittura, arrangiamenti, spunti vocali, eccelsi. Una goduria assoluta. Non mi sono fermato ai primi ascolti (è un lavoro che ne necessità un po' di più della media per essere assimilato) e sono stato ampiamente ripagato.