V Video

R Recensione

6,5/10

Lawrence Arabia

The Sparrow

Gli antipodi possono riservare delle piacevoli sorprese. Un po’ come diceva Santa, il personaggio interpretato da Javier Bardem nel film “I Lunedì Al Sole”: “Lo sai perché si chiamano antipodi? Significa il contrario. L’opposto di qui. Lì c’è lavoro, qui no. Lì scopi, qui no. Gli antipodi.”. Anche James Milne, musicista e cantautore nativo della Nuova Zelanda, si trova agli antipodi, sia geografici che musicali. Innanzitutto, alzi la mano chi ne aveva mai sentito parlare prima dell’uscita di questo disco. Io no di certo, anche se ammetto di non essere granché come pietra di paragone. Eppure, guance lisce e curate a parte, non parliamo mica di uno sbarbatello: la sua bio testimonia una discreta notorietà al di sotto dell’emisfero boreale, soprattutto in virtù della collaborazione con The Brunettes, gruppo indie pop di un certo successo in patria, sbarcato anche negli Stati Uniti grazie all’interessamento della Sub Pop, e poi sempre in territorio americano come musicista dal vivo (bassista) per Okkervil River e Feist e inoltre dal 2006 autore di due album intitolati al suo alter ego Lawrence Arabia.

 

Già, Lawrence Arabia, un nome che è tutto un programma: i primi anni sessanta, i “giovani arrabbiati”, l’Inghilterra afflitta dalla modernità che guarda con nostalgia al suo vecchio fascino coloniale, Peter O’Toole, la colonna sonora di Maurice Jarrè con quell’acrobatico crescendo d’archi. Anche il nostro Lawrence, infatti, si trova agli antipodi della modernità, ma anche di certo citazionismo pret-à-porter: lui vive effettivamente in un'altra epoca, quella suggerita dal suo nome d’arte. E anche qui, negli arrangiamenti che sono uno dei pregi maggiori di “The Sparrow”, gli archi giocano un ruolo fondamentale. Quello che vi alligna è un pop retrò dall’aria disincantata, aristocratica, vagamente decadente, che esprime una leggerezza intrisa di umorismo e malinconia.

Se nella ritmica, quasi sempre sghemba, sottile, giocata sui controtempi, Lawrence conserva qualcosa di okkervilliano (e dei gruppi dai quali, a loro volta, sono stati ispirati), i passaggi orchestrali (piano, fiati, archi) rimandano talvolta al primissimo Scott Walker ma più sfumato, pigro, esangue, privo di qualsiasi epica baritonale, mentre le melodie, affidate alla voce alta ed elegante di Milne, spesso raddoppiata dai cori, denotano una marcata ascendenza beatlesiana.

 

L’opener Traveling Shoes è un po’ il manifesto del suo stile: apertura d’archi che ti riporta indietro nel tempo, già sentita in una vita immaginaria, prenatale, precedente, per un brit pop anni sessanta che guardano a loro volta, con nostalgia, agli anni cinquanta, sostenuto da una ritmica che in un altro contesto farebbe venire in mente i Talking Heads. E se “Legends”, con la sua bella dissolvenza finale per archi e fiati, è quella che omaggia più esplicitamente i mitici quattro di Liverpool, “The Listening Times” è una bella promenade venata di “laziness” kinksiana (in stile “Sunday Afternoon”), “Lick Your Wounds” si snoda sul solito asse armonici per piano e archi con bell’inciso di fiati nella parte centrale, mentre “Bycicle Riding” è più assorbita, essenziale, da camera. A volte può capitare, persino, che Milne si ricordi di essere comunque un musicista del ventunesimo secolo ed inserisca alcuni tocchi d’attualità come il feedback aspro e tagliente che sovrasta il finale di “The O3” o gli archi striduli e tesi fino allo spasimo, quasi alla John Cale, in coda a “Early Kneecappings”.

 

Un disco che dimostra, in sostanza, come si possa scrivere (e suonare) qualcosa di fresco e originale pur vivendo immersi fino al collo nel passato. Agli antipodi, insomma.

V Voti

Voto degli utenti: 8/10 in media su 1 voto.
10
9,5
9
8,5
8
7,5
7
6,5
6
5,5
5
4,5
4
3,5
3
2,5
2
1,5
1
0,5

C Commenti

Non c'è ancora nessun commento. Scrivi tu il primo!
Effettua l'accesso o registrati per commentare.