Tindersticks
The Waiting Room
He knew nothing of what you needed from him
He knew nothing of giving
He only knew of his desires
He only knew of that woman
Legherò sempre il timbro dolente di Stuart Staples, voce dei Tindersticks, a quella scena di Laurence Anyways (di Xavier Dolan, 2012), colma di distacco, sullÎle au Noir, Canada: la nave fende i ghiacci; lui che sta per diventare una lei lha abbandonata allalba, dopo una serata tormentosa. «Laurence? Laurence?», proverà a chiamarlo, abbacinata al risveglio, invano, vuoto il letto. Laurence è già lontano, scalda le mani sul bicchiere di un caffè rovente, gli occhiali scuri coprono i segni di una notte insonne, sventolano soprabito e capelli, Staples canta Already Gone. Il titolo esprime già tutto, poi un sassofono trapela molesto: lamore vero è così difficile
Così quel timbro sottile già sussurra in uno dei pezzi migliori (Second Chanche Man), dopo la strumentale rumba spagnoleggiante di Follow Me. Ma è di poche parole, Staples: i brani senza testo saranno tre su undici, nel tentativo di non imbrattare quanto le mani dei suoi compari hanno plasmato per questo The Waiting Room. Su un arazzo dai medesimi colori si stendono canzoni vagamente tristi, sonnamboliche (We Are Dreamers!), a confermare uno stile consolidato, come muschio che rimane se stesso, fedele alla pietra, benché si schiarisca col tempo: brit-pop dorchestra, spesso scuro, o semplicemente notturno, pop da camera, alt-rock dai colori talvolta intimi, vicini, palpabili, sospeso tra lultimo Bowie (Were We Once Lovers?) o tra il Damien Jurado più vivace (Help Yourself). È musica che ha qualcosa di rétro, nellincastro delle voci (femminile in Hey Lucinda, tra scampanellii e pause teatrali), nelluso dei fiati onnipresenti, nel garbo romantico di Like Only Lovers Can.
I Tindersticks sono ancora qui dopo ventitré lunghi anni di carriera, costellati di alti e bassi, come è ovvio che sia. Ventitré di carriera, e tanti altri di vita. Il declino è alle porte, e della fine cominciano a riconoscersi le sembianze, i contorni, si scorge la voragine, in una specie di stanza dattesa, prefigurata da quella kafkiana copertina. La strumentale This Fear of Emptiness esprime tutto questo terrore del vuoto. Un terrore del vuoto già esistente, già tangibile vero concreto (è this fear, e non generalmente the fear), nelle divagazioni di unarmonica distratta.
The fear of emptiness che torna, come verso sparso, nella verbosa How He Entered, dove stavolta Staples parla, in un flusso continuo (alla Kozelek di Sun Kil Moon, si direbbe), mentre pianoforte ed archi tracciano le linee, a coronare il pezzo più emozionante di un ritorno dignitosissimo.
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