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R Recensione

7/10

Tindersticks

The Waiting Room

He knew nothing of what you needed from him

He knew nothing of giving

He only knew of his desires

He only knew of that woman

 

 

Legherò sempre il timbro dolente di Stuart Staples, voce dei Tindersticks, a quella scena di Laurence Anyways (di Xavier Dolan, 2012), colma di distacco, sull’Île au Noir, Canada: la nave fende i ghiacci; lui – che sta per diventare una lei – l’ha abbandonata all’alba, dopo una serata tormentosa. «Laurence? Laurence?», proverà a chiamarlo, abbacinata al risveglio, invano, vuoto il letto. Laurence è già lontano, scalda le mani sul bicchiere di un caffè rovente, gli occhiali scuri coprono i segni di una notte insonne, sventolano soprabito e capelli, Staples canta Already Gone. Il titolo esprime già tutto, poi un sassofono trapela molesto: l’amore vero è così difficile…

Così quel timbro sottile già sussurra in uno dei pezzi migliori (Second Chanche Man), dopo la strumentale rumba spagnoleggiante di Follow Me. Ma è di poche parole, Staples: i brani senza testo saranno tre su undici, nel tentativo di non imbrattare quanto le mani dei suoi compari hanno plasmato per questo The Waiting Room. Su un arazzo dai medesimi colori si stendono canzoni vagamente tristi, sonnamboliche (We Are Dreamers!), a confermare uno stile consolidato, come muschio che rimane se stesso, fedele alla pietra, benché si schiarisca col tempo: brit-pop d’orchestra, spesso scuro, o semplicemente notturno, pop da camera, alt-rock dai colori talvolta intimi, vicini, palpabili, sospeso tra l’ultimo Bowie (Were We Once Lovers?) o tra il Damien Jurado più vivace (Help Yourself). È musica che ha qualcosa di rétro, nell’incastro delle voci (femminile in Hey Lucinda, tra scampanellii e pause teatrali), nell’uso dei fiati onnipresenti, nel garbo romantico di Like Only Lovers Can.

I Tindersticks sono ancora qui dopo ventitré lunghi anni di carriera, costellati di alti e bassi, come è ovvio che sia. Ventitré di carriera, e tanti altri di vita. Il declino è alle porte, e della fine cominciano a riconoscersi le sembianze, i contorni, si scorge la voragine, in una specie di stanza d’attesa, prefigurata da quella kafkiana copertina. La strumentale This Fear of Emptiness esprime tutto questo terrore del vuoto. Un terrore del vuoto già esistente, già tangibile vero concreto (è this fear, e non generalmente the fear), nelle divagazioni di un’armonica distratta.

The fear of emptiness che torna, come verso sparso, nella verbosa How He Entered, dove stavolta Staples parla, in un flusso continuo (alla Kozelek di Sun Kil Moon, si direbbe), mentre pianoforte ed archi tracciano le linee, a coronare il pezzo più emozionante di un ritorno dignitosissimo.

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Voto degli utenti: 7,8/10 in media su 3 voti.
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zebra 8/10
Dengler 8,5/10

C Commenti

Ci sono 4 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
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The musical box alle 16:00 del 18 febbraio 2016 ha scritto:

Un disco meraviglioso....finalmente tornati ai livelli che conosciamo..la scelta di avere poche pezzi cantati rende il tutto ancora più evocativo ed emozionante..we Are dreamers favolosa

LucaJoker19_ alle 21:27 del 20 febbraio 2016 ha scritto:

mai sentiti . segno .

REBBY alle 11:34 del 29 novembre 2016 ha scritto:

Il declino non sembra vicino.