A Sunny Day In Glasgow
Ashes Grammar
Meglio chiarire subito: “Ashes Grammar”, secondo disco degli A Sunny Day In Glasgow, è un ascolto sfiancante. Arrivati alla fine si potrebbe scoprire di essere passati allo stato gassoso, per osmosi con la totale smaterializzazione dei suoni, o, in alternativa, di essersi addormentati: l’estasi, dunque, o la narcolessi. La curiosità di capire quale sorte capiterà a voi vale la pena di questo tour de force uditivo, anche perché, per chi arriva alla fine, c’è la soddisfazione di poter dire di essere stati messi ko da un disco dream-pop. Mica da tutti.
63 minuti per 22 tracce dalla lunghezza molto variabile (di fatto, però, il flusso musicale è ininterrotto) rappresentano una bella mazzata solo a dirli. Il macigno è uscito quasi esclusivamente dalla mente di Ben Daniels (da Philadelphia), coadiuvato in sede di produzione – e in qualche caso di composizione – da Josh Meakim; le sorelle gemelle di Daniels, Robin e Lauren, voci nel primo disco degli ASDIG (“Scribble Mural Comic Journal”, 2007), hanno abbandonato in itinere il progetto, così come altri musicisti che sono stati via via rimpiazzati da nuovi membri (alla voce c’è un’angelica Annie Fredrickson) o dallo stesso factotum Daniels. Una genesi tanto tribolata e in qualche modo liquida ha fatto sì che il prodotto finale sia quanto di più impalpabile si sia ascoltato quest’anno: l’ineffabilità fatta musica. Se proprio si volesse provare a ‘dirlo’ per paragoni, questo sound, si potrebbe mettere assieme i My Bloody Valentine più eterei (“To Here Knows When”), Cocteau Twins, Animal Collective, Atlas Sound, Slowdive, una componente vocale art-pop bizantina unita a devoluzioni kraute e basi dreamy, e chissà cos’altro. Insomma, un pasticcio.
Un bellissimo pasticcio. Il dribbling tra i riempitivi e i pezzi interlocutori (molti tra i 22) non è consigliato: tutto si tiene, in “Ashes Grammar”, quindi tutto pretende di essere ascoltato, e se possibile con ordine, senza salti da un punto all’altro dell’album. Ci si ritroverà immersi in un accostamento di continui rilanci e ri-assopimenti, periodiche ouverture e sfoghi celestiali, maratone di variazioni melodiche piene di ghirigori e pause quasi ambient, intro e outro, con i momenti apicali che rimangono isolati, quando sono presenti, negli ultimi minuti di qualche suite. Così, ad esempio, nell’emblematica “Close Chorus”, 6’24’’ che conoscono almeno due vite diverse: prima dance-lounge paradisiaca, come se i Saint Etienne fossero invitati per un drink tra le sfere angeliche, poi noise-pop à la Stereolab con l’ingresso di chitarre acidognole disperse in una densa fumosità di stratificazioni guarda-scarpe, il tutto disteso su un tappeto volante di accordi decisamente anticanonici.
Le falde massicce di bordoni sembrano piallare tutto e isolare l’intero disco in una dimensione ultraterrena, ma anche a un primo ascolto si nota l’estrema varietà che sottende questa patina sognante: in profondità, come intraviste sottacqua, si muovono melodie arabescate, chitarre jingle-jangle, e una sezione ritmica spesso molto fisica, a controbilanciare l’evanescenza del tutto. Pezzi basati sulla batteria si alternano a pezzi completamente fondati sul beat, e ogni tanto la fusione si realizza nello stesso brano. Così, ad esempio, in “Nitetime Rainbows”, ossia i Dirty Projectors messi in lavatrice, il che è tutto dire: ne esce, in cinque minuti e mezzo, una girandola di canzoni e (non-)generi quasi imbarazzante. L’accostamento più stridente, dopo un incipit pressoché deep-house e un prosieguo in linea con il 'famolo strano' weird-qualcosa degli ultimi anni, è ai due minuti e mezzo, quando un electro-pop tutto anni ‘90 sfocia in una parentesi folkish giocosamente psichedelica. E calcolate che mancano altri tre minuti alla fine della canzone...
C’è, è vero, qualche eccentricità gratuita. Lo si nota subito, all’ingresso, visto che per trovare la prima ‘vera’ (?) canzone bisogna aspettare la traccia 4, quasi che ci fosse chiesto di entrare in questo delirio per gradi: prima ci accoglie una voce sfocata per dieci secondi (“Magna For Annie, Josh & Robin”), poi un intarsio labirintico di voci e cori per quaranta secondi (“Secrets At The Prom”), quindi finalmente un primo assaggio di tastiere per due minuti (“Slaughter killing carnage (the meaning of words)”). Verrebbe normale irritarsi, se non fosse che la quarta traccia, “Failure”, ci offre i Panda Bear rimescolati nell’etere, freakerie dalle mosse selvagge con un cantato dionisiaco che più Collettivo Animale non si può, tra una prima parte schizofrenico-festosa e una seconda dall’effetto chill-out, nella quale si ricompone una sorta di quiete dopo la tempesta. Spettacolo. È come iniziare la cena a mezzanotte, ma con un filetto alla Robespierre.
Poi, si salvi chi può. Qualche parola la meriterebbe ogni traccia, tanto che persino molti apparenti riempitivi si risolvono in pezzoni da 90, tipo “Evil, With Evil, Against Evil”, che nei suoi 2’30’’ mixa sfumature orientali ora molto chic (Ducktails!?) a passaggi psych-dance colorati da claps e synth invadenti, per una sintesi finale di letterale incanto. Gli zenit del disco, tuttavia, stanno nella ridda incorporea di “Shy” (uno split tra i Mogwai ed Enya?), nelle ballabili melodie annacquate di “Passionate Introvert”, nello shoegaze-pop più rozzo di “The White Witch” (la sagoma scheletrica di Bradford Cox sullo sfondo), con tanto di finale dalle virate cacofoniche, e nel mix ipnotico di glitch e IDM (ma con linee vocali da filastrocca stupidina) di “Blood White”. Ma le parole, qua, sono già troppe, per un disco che a essere descritto perde più di altri.
E pazienza se qualche canzone non riesce a fare presa e prende il volo come un palloncino sfuggito dalle mani: l’insieme è ultra-stimolante e stuzzica il ri-ascolto come pochi altri dischi usciti quest’anno. Dunque: stato gassoso o narcolessi?
LINK
Sito ufficiale: asunnydayinglasgow.com/
Myspace: www.myspace.com/sunnydayinglasgow
VIDEO
Tweet