Altar Eagle
Mechanical Gardens
Gli anni '80 non finiranno mai. O forse sì, ma in fondo non ha così importanza. Quel che conta è soltanto ringraziare che da quell'innovativo decennio l'ondata revival wave degli anni '00 (tuttora in corso?) abbia ripreso con particolare frequenza quelle sonorità fondate su atmosfere cupe e malinconiche, cercando di catturarne l'essenza spirituale più decadente e sognante che ha segnato fenomeni come il dark-wave, il dream-pop e lo shoegaze.
Poi certo, sciaguratamente ci sono state anche le rivisitazioni di un altro fenomeno tipico soprattutto della prima metà del decennio: l'attenzione microscopica e puntigliosa per un sound plastificato e digitalizzato fino al midollo negli studi di registrazione, come ci ha insegnato un certo cattivo synth-pop commerciale della peggior specie.
Per fortuna non è questo il caso degli Altar Eagle, sigla dietro cui si cela la coppia di coniugi Brad Rose e Eden Hemming, già al lavoro in passato con progetti differenti tra loro come The North Sea e Corsican Paintbrush.
Il viaggio in cui si gettano stavolta i due è quello intrapreso in questi ultimi anni (con largo anticipo sulla concorrenza quindi) dai Beach House, e ricalcato nelle sfumature più diverse (ora in salsa più wave e ritmata, ora più dream) da gruppi come Burning Hearts, Holiday for Strings, Pyramids, The Helio Sequence, Tearwave e tanti altri.
Ecco quindi puri brani dream pop squisitamente innaffiati di tastiere, autunno e synth come Battlegrounds, Honey, Breakdown. Rimanendo su questi binari ci sono momenti (You Lost Your Neon Haze)in cui la struttura sonora prende il sopravvento sul cantato, che rimane echeggiante in lontananza, dando quella sensazione di assistere al racconto di un amore digitale da terzo millennio: tutto effetti speciali melodici ma impossibile da sentire con nitidezza.
Rispetto ai Beach House però si gioca di più con i colori e le ritmiche, lasciandosi anche andare a giochetti di indietronica waveggiante (Pour Your Dark Heart Out, e Spy Movie che rievoca i My Bloody Valentine) e orgie sonore più intense, come l'ubriacante balletto impastato di synth incrociati di Six Foot Arms.
Sembra infine difficile conciliare tutto quanto detto sopra con due brani come B'nai B'rith Girls e Monsters: il primo uno strumentale in cui gocce di liquidità scivolano tra tavolate glitch e un'elettronica low-fi minimale; il secondo un momento in cui l'enfasi si fa maggiore e più frenetica, come se gli Arcade Fire chiedessero rifugio nel castello shoegaze controllato dai sovversivi della Sacred Bones.
Non mancano insomma gli spunti per parlare di un disco verso in bilico più volte verso l'hypnagogic pop, anche se di gran lunga più vicino ad un'estetica riconducibile a gruppi come Slowdive, Cocteau Twins e i già citati Beach House. L'effetto complessivo è quindi assai eterogeneo e dinamico, anche se con qualche calo d'intensità qua e là, dovuto per lo più a salti di genere improvvisi e non abbastanza coordinati. Però insomma: a buon intenditor poche parole.
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