Beach House
Bloom
Ci sono band che, per lasciare il segno sul lungo periodo, hanno bisogno di mutarsi, proporsi in vesti nuove, svoltare. Altre, invece, a cui basta germogliare. Ed eccolo, il germoglio dei Beach House. Dopo l’apertura delle finestre di “Teen Dream”, con questo quarto disco il duo di Baltimora è il palloncino che esce e si perde in cielo. Nessuna traccia rimane della claustrofilia ovattata dei primi due lavori. Qua le chitarre luccicano, le tastiere sono aeree, le basi si fanno sempre meno asettiche, il respiro sonoro è vastissimo, con una Legrand ormai sontuosa, in cima a tutto. Capace di tirar fuori melodie che fanno di “Bloom”, per livello compositivo, l’apice della band.
E i Beach House, ormai, sono una band importante. Una di quelle che si citano come modello per nuovi artisti. “Suonano come i Beach House”. “Sembrano i Beach House”. “L’organo è stra-Beach House”. “Bloom”, ecco, è un disco infinitamente Beach House. Eppure non c’è autocitazionismo. C'è, semmai, il perfezionamento di un'idea di pop. Rispetto al gemello “Teen Dream” la gamma sonora è ancora più allargata e assai più ricca. Cristallina. Se prima la Legrand poteva vantare il ricorso a una decina di organi diversi, ora è circondata da moltissime altre varianti, tanto più che a reggere le strutture dei pezzi sono spesso le chitarre, fumi di bassi molto più densi che in passato, effetti ritmici lussureggianti rispetto al minimalismo un po’ autistico (e pur già così evocativo) dei primi dischi.
E così, dopo l’intro, i pezzi tendono subito a esplodere e a mandare in gloria le linee vocali estratte dalla Legrand, inerpicate sopra arpeggi ipnotici che rimangono sullo sfondo a puntinare il paesaggio (di sole, naturalmente: il disco è stato registrato in Texas). Così, ad esempio, scorre “Lazuli”, che poi propone la consueta forma-canzone à la Beach House (appunto), con una variazione melodica dopo il secondo ritornello a fare da lunga coda finale. Ma se è gloria, è anche un poco malinconica. La melodia di “Myth” cita “Eyes without a Face” di Billy Idol, la spettacolare giostra in languido cabaret di “On the Sea” ricorda un mare nordico piuttosto che mediterraneo, “Wishes” spreme le dolcezze tristi dei carillon, “New Year” irrompe con una batteria impetuosa e su cori molto aerei, eppure è coperta da una glassa di nostalgia mandata in velenoso loop dal giro di chitarra, mentre i due accordi che si riversano l’uno nell’altro di “The Hours” dicono che è primavera, certo, ma un po’ appartata.
Il flusso sonoro di “Bloom” non poteva che scorrere in una dimensione lontana, un po’ esilio e un po’ viaggio fantastico. Che questo mondo non interessasse ai Beach House, d’altronde, lo si era già capito da come cercavano di eluderlo chiudendosi nelle stanze scure dei primi due dischi. Qua, con un movimento in direzione opposta, la soluzione è la fuga, ma il risultato non cambia (tutto il nero di copertina e singoli qualcosa vorrà pur dire). Ascoltare un disco dei Beach House rimane pura metafisica del pop. “It’s a strange paradise”, come recita il mantra finale di “Irene”. Qui più che mai.
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