Beach House
Devotion
In pochi si erano accorti dellesordio dei Beach House nel 2006: nove tracce sospese nel tempo che aggiornavano al nuovo millennio la lezione dream-pop e slow-core unendo con fili leggeri nomi di riferimento come Galaxie 500, Nico, Mazzy Star e Low. Il risultato era eccezionale ma peccava forse di una eccessiva omogeneità stilistica che lungi dal favorire la compattezza del disco sembrava appesantire eccessivamente canzoni di raffinatissima fattura.
Devotion è lopera seconda del duo di Baltimora ma non si discosta molto dallesordio, ripetendone gli stessi pregi e difetti.
I pregi, lo sapevamo già, sono la capacità di comporre brani di squisita raffinatezza e di un candore quasi angelico. Canzoni semplici che viaggiano su un leggero strato di un morbido organo, accompagnato da una batteria digitale appena accennata e dallopera di Alex Scally che accarezza chitarra e tastiere quasi chiedendo scusa per lintrusione, per permettersi di accompagnare la passionale ed evocativa Victoria Legrand, che si conferma una delle voci femminili più belle in circolazione. E difficile quindi trovare difetti di forma a brani eccezionali come Holy dances, Heart of chambers e tanti altri. Forse talvolta si pecca un pò di leziosismo, specie sulla lunga distanza, in pezzi come D.A.R.L.I.N.G.
Talvolta (Astronaut) si ha invece limpressione di ascoltare una canzone già sentita, in un circolo che sembra non portare da nessuna parte se non in un giochino acustico auto-citazionista e consolatorio. Anche Some things last a long time, cover di Daniel Johnston riesce nel complesso godibile e riuscita ma non raggiunge lincisività della versione originale. Devotion è inoltre un album troppo lungo che non riesce a svoltare fuori da un percorso ben tracciato e sicuro ma proprio per questo poco avventuroso e sorprendente. I Beach House in sintesi non sembrano aggiungere nulla al disco precedente che rimane migliore per la sua interezza e per la magica sorpresa che portò fin dal primo ascolto.
Ciònonostante durante lascolto di Devotion si fa fatica a rimanere con i piedi per terra e ci si ritrova spesso a viaggiare con la mente in luoghi sconosciuti: così parte Wedding bell e ti immagini una domenica autunnale passata in riva a un pacifico lago. Poi arriva You came to me che ti cattura con il suo splendido intro, con la sua atmosfera glaciale e sensuale e con un ritornello fanciullesco che ispira tenerezza. Sono tanti piccoli bozzetti come Gila, un soffio al cuore, e Turtle island, di una malinconia incantevole, che rendono quindi apprezzabile un disco seducente e delicato, anche se a tratti un pò monocorde. Difficile quindi riuscire a bocciare una prova del genere.
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