Blouse
Blouse
Ancora pop retromaniaco, nostalgie di vhs, languori per i suoni che sembrano riemergere dal passato, synth usati come rivestimento vintage, svenevolezze in salsa melodica, rivisitazioni new wave. I Blouse, trio di Portland al suo debutto, vanno ad applicare al dream pop post-Beach House una poetica non dissimile da quella che ha fatto esplodere le micro-scene glo-fi e hypnagogic pop: tutto si basa sull’abbandono alla memoria, con gli anni ’80 a fare da perno, e lenzuola rosa su cui estenuarsi di rimpianti. Tutta roba che pare duplicare copie di cloni, in una fuga di derivazioni. Il punto è che ci sono canzoni killer a tratti irresistibili, che cancellano la sensazione dell'artificio.
Siamo in pieni territori Captured Tracks, insomma. Eccessi di romanticismo via glasse di tastiere, bassi post punk ingentiliti, basi quadrate, un registro vocale femminile (s)fatto di una delicatezza un po’ in decadenza, la new wave ripresa nel suo versante introverso da cameretta piena di rabbie rapprese e eyeliner nero. “Videotapes”, quintessenza del disco, si apre su cacofonie di tastiere che poi si distendono stile The Wake (era-“Here Comes Everybody”) e sventolano addosso un’aria di moquette e spugna, raccontando la storia di un ex che filmava tutto, ma mai se stesso, tanto da essere impossibile da rievocare («What it would be like to see you again?»). Questo, per lo più, trasmette “Blouse”: la deliziosa impossibilità che il ricordo porti davvero a galla il passato.
Sicché si piange, con Charlie Hilton che si risvolta in introspezioni esangui, sulla scia di certi Saint Etienne d’annata, come nei canditi di “Fountain in Rewind” («High tide into my eyes, I’m like a fountain, but in rewind»). Altrove il basso più massiccio (“Roses”) e i maggiori muscoli dei synth (“Time Travel”) danno vigore, facendo intuire il ruolo portante di Jacob Portrait – polistrumentista che qua pure produce, ma che negli Unknown Mortal Orchestra sta al quattro corde. Attorno a cui, non a caso, si costruiscono interi pezzi, la cui nudità (vd. “Controller”) e le cui geometrie delle keyboards restituiscono secca sobrietà post punk a un disco che potrebbe facilmente scivolare verso la maniera plasticosa, mentre a tratti pare essere una controparte rosa degli ultimi (più elettronici) The Drums. Meglio ancora: se Blank Dogs si desse al dream pop suonerebbe cose tipo “White”.
Peccato per una cosa sola. Rispetto alla versione del 7’’ uscito in primavera, “Into Black”, la perla del disco, subisce un lavoro di smaltatura e appiattimento sonoro che la rende più omogenea al resto dell’album, ma al prezzo di perdere in profondità. Resta, in ogni caso, un pezzo pop sontuoso, perduto e votato all’abbandono come le notti che evoca in quel breve riff lunare di chitarra e nei luccicori dei synth, nel cantato vulnerabile della Hilton e nell’esplosione vastissima che la squarcia nel mezzo. Per qualcosa che si avvicina molto alla bellezza.
Intanto, nel genere, il debutto è all’altezza delle cose migliori dell’anno.
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