Cloud Control
Dream Cave
Dream Cave è il nome di un noto albergo di Göreme, in Cappadocia, dove i cosiddetti camini delle fate rocce vulcaniche erose dal tempo si slanciano alti e suggestivi, come magri pinnacoli, affusolati. In questhotel dellentroterra turco, le camere sono magicamente scavate nella roccia, e si dorme in piramidi naturali, o trulli dalle cupole imprecise. Semplicemente grotte, spelonche da sogno. Pare davvero di trovarsi in una di queste caverne, quando alla fine del disco cadono tante gocce dacqua, e riecheggiano, mentre la voce ha appena smesso di ammettere che sì, si trova in una grotta da sogno fabbricata dal suo amore.
I Cloud Control sono tre ragazzotti e una fanciulla, tutti originari di quellAustralia fucina di giovani talenti. Della terra dei canguri è anche Leif Podhajsky, ormai guru dellartwork planetario e curatore anche di questa copertina: da lontano sembrerebbero solo distratte pennellate verde mirto, con punte di bianco. Invece, forse, è un mare obliquo in tempesta, quello rappresentato, e sporge una rupe, uno scoglio, e un omino in piedi, nero, osserva la burrasca. Tutto molto onirico, non può essere diversamente quando di mezzo cè il sogno, e la parola dream, verbo o sostantivo, compare sovente nell'arco dell'album. Tutto molto lisergico, come poi è manifesto nella musica.
Si ha spesso limpressione, ascoltando questo secondo LP dei Cloud Control (balzo in avanti rispetto al pur buono Bliss Release, del 2010), di ballare un po storditi, rapiti, al centro di una sala, con luci intermittenti che socchiudono gli occhi e muovono la mente (si veda The Smoke, The Feeling, superba). Derive dance non sono del tutto insolite in questa congerie di disparate inclinazioni, dove spicca un pop, indie e alternativo, che si guarnisce di synth-rock e di robusti respiri psichedelici (o almeno quelli più tipici dei Sixties). Lelettronica è più che unombra, in un disco tuttavia molto suonato in ogni sua parte, soprattutto negli effimeri assoli di Fender, spesso brillanti. Dunque congerie, certo, eppure lavoro non per questo disorganico, caotico.
Notevole è lintesa della coppia Wright-Lenffer, due voci di sesso diverso che ambiscono al solito scopo, con successo: accattivare, scambiandosi di posto e intensità. Voce maschile spesso camuffata, distaccata, quasi puerile come quella di Trevor Powers (Youth Lagoon), in atmosfere eteree (Cocteau Twins), tra falsetti e arrangiamenti che non sfigurano con quelli peculiari di Yorke e dei suoi Radiohead (Island Living). La pregevolezza delle melodie, peraltro, cita i migliori Noah and The Whale, mentre la sensibilità così varia è quella degli imberbi Alt-J.
Psichedelia di casa fin da subito, con la breve Scream Rave, colma di effetti, di loop, di ritorni tipici dei Tame Impala, compatrioti, palpabili anche negli echi della beatlesiana Moonrabit, in cui le gocce già crollano, precorrendo il finale (come in Tombstone). La distanza renderà più forti è il concetto della graziosa Dojo Rising, con il get ripetuto allo sfinimento; poi Wright si libera in allettanti divagazioni vocali, in un brano tra i migliori (Promises) per cura dei cori, fraseggi di chitarra e basso vivace. Nel conto dei rari momenti infelici (accade appena in qualche scontato passaggio lirico), si annovera la doppietta di Scar e Happy Birthday, insipida perché troppo ragionata. E poi la title track, infine acustica, chiude dolcemente l'album con un timbro caratteristico (addirittura) della musica leggera italiana, naturalmente ancora quella degli anni Sessanta.
Dalla grotta del sogno, da queste alcove scavate nella roccia, dalle piramidi naturali, dai trulli dalle cupole imprecise non sboccano solo echi distanti, atavici, e cascate perenni di gocce dacqua. Sbocca il disco maturo, coinvolgente, di quattro giovincelli che impressionano fin dai primi approcci. E per sognare non occorre recarsi in Cappadocia. Il sogno è qui, è australiano.
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