Cocteau Twins
Treasure
Dietro le tende, il pizzo, la seta di copertina, c'è una sineddoche vivente tutta da svelare; non si può fare altrimenti, bisogna per forza iniziare da lei, parte per il tutto e per il troppo: una voce per un album, per un genere completamente nuovo, per una casa discografica intera (per la 4AD è stata un vero e proprio trampolino di lancio). E quindi, a vibrare tra le pareti e le casse è l'ugola dolce, cristallina, angelica, sovrannaturale, tremula, solidissima e irraggiungibile di Elizabeth Fraser.
Un colpo di scena che manco nel più classico dei film horror, eppure un'introduzione a luci puntate doverosa quanto essenziale e importante. Perché Elizabeth Fraser non è stata solo la cantante dei Cocteau Twins, nè la voce in libero accompagnamento dei Dead Can Dance della Gerrard, nè tantomeno la compagna di Jeff Buckley, o il diamante primo nel progetto-4AD dei This Mortal Coil (nella cui raccolta "It'll End In Tears" potrete ammirare una splendida cover di "Song To The Siren", l'unica a non sfigurare al cospetto dell'originale). Lei non è stata, e non è, solo questo: è la Maga Circe di un regno dietro uno specchio sbiadito in soffitta, al di qua del reale e dentro l'incanto, un castello medioevale dalle mille stanze, labirintico, senza uscita, e trappola immortale per gli Ulisse di turno. E noi che non siamo minimamente eroici avventurieri, non ci pensiamo neanche a scappare dalle grinfie della maga, ma anzi decidiamo di tornare bambini nella culla, per una ninna-nanna che dura ormai dal lontano 1984, anno di uscita di "Treasure" (terzo loro album) e punto di svolta per l'intero universo dark-wave.
Ormai naturali eredi dei Siouxsie & The Banshees dopo i primi due album, infatti, i Cocteau Twins decidono di allontanare i versi punk dei primi album a echi sottili e lontani, facendosi esperti garanti di un ordine nuovissimo: il dream-pop delle lande evanescenti, terre di confine tra melodie pop, afflato ambient e psichedelia spirituale. Dagli incubi più oscuri alle visioni più celestiali, la band scozzese è riuscita a coniugare sacro e profano soggiogando un imponente muro di synth rosenthaliani per richiamo gotico ("Beatrix") e al tempo stesso occupandone gli spazi cattedraleschi con caroselli dolcissimi per arpeggi trasognati e lievitanti ("Lorelei" e "Aloysius"). E' su questo gioco d'equilibrio che si sviluppa l'intero album, col bilancino dell'inquietudine ("Cicely") e dell'incanto ("Amelia"), tra cantilene visionarie e infantili ("Pandora (For Cindy)"), irraggiungibili gorgheggi vocali della Fraser, sostenuti da un vorticoso accompagnamento della chitarra e delle percussioni di Guthrie e Raymonde ("Persephone") e psychedelic-ballad in slow-motion di sepolcrale bellezza ("Otterley"). In questo moto-immobile, ingannevolmente perpetuo e orizzontale, i Cocteau Twins proiettano il loro mondo astratto che vive ai margini di un isolamento spettrale, spiegato solo attraverso il nome: analogamente ai fratellini orfani del romanzo di Jean Cocteau, "Les Enfants Terribles", i Cocteau Twins hanno ricreato un mondo fantastico fittizio, fatto di filastrocche e trucchi di magia, che nel caso dei "terribili" protagonisti dell'opera serviva ad emarginarsi dalla triste realtà delle mura domestiche. Gemelli Cocteau, dunque, in un'improbabile traduzione, che appaiono peraltro curiosamente simili per motivi di trama ad altri gemelli orfani, quelli descritti dalla Kristof nella bellissima "Trilogia della Città di K"; casualità o ispirazione poco importa, perché il prodigio può dirsi compiuto: persi in questo universo metafisico, veniamo travolti dalla loro pièce teatrale per eccellenza, conturbante negli abulici movimenti goth di basso e chitarra, e scossa da improvvisa squarci lirici negli acuti della Fraser ("Ivo").
Ad ammaliare, su tutto, è l'enfasi melodrammatica con cui i Cocteau Twins orchestrano le composizioni, che raggiungono un particolare effetto ovattato nei suoni strumentali, quasi a voler innalzare la voce della Fraser su un piedistallo e da lì accompagnarla nelle sue escursioni verticali con accordi attutiti e battiti quasi smorzati; e se non c'è l'enfasi delle elaborazioni pirotecniche, rimane la suggestione di paesaggi rarefatti distesi s'un tappeto di synth evanescenti e litanie ultraterrene ("Donimo"). Così com'è quindi, "Treasure" si completa da sè, chiedendo poco al passato e costruendo molto per il futuro: un album importante, pieno di sfaccettature, e soprattutto, bellissimo d'ascoltare.
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