R Recensione

8/10

Elbow

The Seldom Seen Kid

Gli Elbow rappresentano una di quelle congiunture perfette del pop britannico grazie alle quale si giunge alla conclusione che c’è vita intelligente oltre il brit-pop dei ‘90s. Il gruppo si autodefinisce “progressive senza gli solo” e in effetti non è un teorema del tutto campato per aria, se non altro per quanto riguarda il fulminante esordio Asleep in the back (2001) che poteva essere tranquillamente inquadrato (e infatti lo fu) come un figlioccio derivativo dei Radiohead (come lo potevano essere all’epoca Muse e Clinic). In realtà lo stile degli Elbow non è di così facile catalogazione.

L’attitudine generale affonda le sue radici in un pop languido e per certi versi tragico su cui gioca un ruolo molto importante la voce di Guy Garvey, però i rimandi non si possono limitare ai Radiohead melodici dei ‘90s. Altri nomi ingombranti come Doves e Coldplay possono essere tirati fuori dal catalogo, e con loro una scia di cloni britannici di livello inferiore (Embrace, Travis, Starsailor, eccetera).

D’altronde c’era in Asleep in the back quell’aria piena di arrangiamenti, quella sorta di tappeto sonoro costantemente in piedi che sottostava alle tenere melodie. E qui entra in gioco il progressive di cui parla il gruppo: tralasciando la pomposità degli assoli ci si limita a curare ogni brano in maniera maniacale, aggiungendo piccoli effetti qua e là, studiando attentamente ogni nota e dilatando per bene l’insieme su una superficie a tutto tondo. Di qui i riferimenti tirati in ballo a proposito di Genesis, Peter Gabriel e Talk Talk. Riguardo alla devastante malinconia non c’è neanche da parlarne, la musica britannica ne è piena zeppa (per restare nell’ambito basterebbe aggiungere calibri come Arab Strap, Tinderstick, Smog).

Quello che era uno dei gioielli più luccicanti del pop00s non trovava però un degno seguito in Cast of thousand (2004), che si sbilanciava eccessivamente verso un suono talmente emotivo da diventare borioso e pesante. La situazione migliorava parzialmente con Leaders of the free world (2005) che ritrovava un pò di verve e reinvestigava sonorità intriganti. Se i Coldplay sono andati in costante declino e X&Y ha rappresentato la disfatta definitiva il terzo album degli Elbow lasciava insomma capire che non era finita lì, che forse si poteva ancora dire qualcosa di importante.

Ed ecco che dopo tre anni la dichiarazione prende corpo e nome: The seldom seen kid, “il ragazzo visto di rado” che merita un’analisi approfondita: si parte con Starlings, il suo delicato cantato e la sua travolgente passione tragica (degna dei migliori Eels) che si concretizza negli imperiosi stacchi della tastiera a intorbidire il brano. The bones gioca coi generi e parte da un ritmo world esotico su cui si spande la voce più spedita di Garvey, accompagnata qua e là da cori e synth vari; d’un tratto inaspettatamente compare una chitarra che mette a ferro e fuoco l’atmosfera con un’accelerazione degna dei migliori Muse; il finale resta in bilico tra il ritmo tribale, il suono più ruvido e le soffici melodie vocali, spegnendosi poi lentamente sull’eco lontana di un assolo di tromba solitario.

Mirrorball è un dream-pop carico di arrangiamenti che avanza calorosamente ipnotizzando in silenzio. Stupisce la capacità di cambiare continuamente registro e Grounds for divorce conferma lo stupore con il suo art-rock alla dEUS che vagheggia tra una chitarra prima zingara poi heavy mentre An audience with the pope pur restando sensuale e bollente sembra precipitare l’ascoltatore in una serata stellata e misteriosa.

Weather to fly gode di una dolce linea di pianoforte e di un cantato stanco e strascicato che introduce in una dimensione quasi digitale, senza però diventare fredda. La musica degli Elbow appare spesso come un meccanicismo ritmico di temperatura elevatissima. A confermare l’impressione l’esasperante intensità emotiva (prima strumentale poi vocale) di The loneliness of a tower crane driver, che diventa insopportabilmente bella e tragica (moderno canto di sirene diaboliche) nell’intrecciarsi finale tra un superbo Garvey e la fitta rete di synth, tastiere e archi a supporto.

La swingheggiante The fix smorza un pò la tensione ma per la prima volta anche la qualità sembra risentirne. Forse però è tutto calcolato per offrire un attimo di tregua emotiva all’ascoltatore prima dei tre micidiali brani conclusivi: Some riot parte tra piccoli cristalli di pianoforte e chitarra che formano un incantevole incastro onirico su cui si staglia lo struggente canto di Garvey che quando arriva al ritornello “is breaking my heart” dà l’impressione che un cuore si stia davvero spezzando in qualche luogo remoto.

On a day like this è uno spiraglio di luce che si fa largo tra gli archi finalmente più ariosi per una base ritmica complessivamente meno cupa e più briosa. Il brano sfocia nell’ennesimo splendido finale in cui si incastrano coro, cantato radioso, chitarra svolazzante e archi frastagliati.

Friend of ours, ultimo tassello di un disco incatevole, si apre con una chitarra malinconica e l’incantevole accompagnamento della coppia piano-archi. Tra i sussurri di Garvey si ha l’impressione che la musica prenda corpo in un angolo della stanza. E si vorrebbe ammirarla ma non si riesce. L’atmosfera a lume di candela creata dal brano ha reso l’aria troppo soffusa per vederci. Permette solo di sentire col cuore.  

V Voti

Voto degli utenti: 7,4/10 in media su 29 voti.

C Commenti

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TheManMachine alle 0:07 del 30 aprile 2008 ha scritto:

Aspettavo la recensione di questo disco su Storia, perché avevo ascoltato nei giorni scorsi dei sample che mi avevano molto favorevolmente disposto all'ascolto completo di tutte le tracce, e poi avevo letto giudizi positivi un po' duvunque. E anche tu, vedo, Alessandro, stai dalla parte di chi ha apprezzato questo disco. Che vado quindi a mettere senza più indugi nella lista dei miei prossimi ascolti. Molto gradevole la tua recensione

ozzy(d) alle 14:24 del 30 aprile 2008 ha scritto:

Mi hanno sempre fatto venire il latte alle ginocchia, come tutti o quasi gli eredi/emuli/epigoni dei Radiohead.

Marco_Biasio (ha votato 6 questo disco) alle 21:45 del 6 maggio 2008 ha scritto:

Non lo so, non mi ha convinto granchè. Bello scritto, ma l'album non mi è parso all'altezza del tuo lavoro, Alessandro.

target (ha votato 8 questo disco) alle 11:17 del 16 maggio 2008 ha scritto:

monday is for drinking to the seldom seen kid

Non mi erano mai andati a genio, gli Elbow, ma questo ragazzo visto di rado (bellissimo il titolo) lo trovo interessante assai: molta varietà, grandissima cura per i suoni, capacità di andare oltre la ricerca tutta britannica per il ritornello catchy, ritmi dilatati, e la voce acre di Garvey. "Some riot" il momento migliore. Thanx peasy.

loson (ha votato 7 questo disco) alle 15:05 del 22 maggio 2008 ha scritto:

Disco dicreto, dai suoni ricercati, a tratti raffinato nella scrittura. Ottima recensione Alessandro, complimenti!

4AS (ha votato 9 questo disco) alle 15:56 del 24 febbraio 2009 ha scritto:

Leggendo i commenti, sono un pò sorpreso nel vedere che questo disco non è stato apprezzato a pieno. Probabilmente ciò è avvenuto perché il valore del disco viene fuori dopo molti ascolti e magari qualcuno ha mollato dopo 3 ascolti. Comunque sia, questo "Seldom Seen Kid" è indubbiamente un lavoro sopra la media, per me di gran lunga superiore a qualsiasi disco dei radiohead ma purtroppo, a differenza di quest'ultimi, sono ancora troppo poco pubblicizzati e in italia la gente non sa neanche che esistono

Ipomea (ha votato 9 questo disco) alle 23:07 del 14 maggio 2010 ha scritto:

A distanza di mesi e mesi mi sono ricordata chi mi avesse consigliato per la prima volta gli Elbow.

Fu leggendo, come al solito, queste pagine.

Questo è uno dei dischi che sento più miei.

Sono d'accordissimo con chi ha parlato di raffinatezza e cura dei suoni.

E credo che la chiave stia nella chiarezza e nella semplicità delle melodie: per niente banali, ma nello stesso tempo schiette e dirette.

Alessandro Pascale, autore, alle 1:01 del 15 maggio 2010 ha scritto:

felici di aver reso un buon servigio Ipomea

swansong (ha votato 8 questo disco) alle 10:29 del 11 aprile 2011 ha scritto:

è indubbiamente un lavoro sopra la media, per me di gran lunga superiore a qualsiasi disco dei radiohead

e hai detto tutto...

REBBY (ha votato 7 questo disco) alle 10:58 del 11 aprile 2011 ha scritto:

No, ha detto nulla! eheh Visto che ha già ripetuto in tutte le salse che i Radiohead sono sopravvalutati, che sono "costantemente osannati senza avere particolari meriti".

Harlan1985 (ha votato 9 questo disco) alle 18:19 del 4 luglio 2011 ha scritto:

Grande scoperta

Questa è musica Pop con la P maiuscola... Non una nota fuori posto, tutti i colpi vanno a segno... "Mirrorball" è un gioiello assoluto.

Matteo Giobbi (ha votato 8 questo disco) alle 21:03 del 21 settembre 2013 ha scritto:

So di esagerare ma One Day Like This è una canzone capolavoro.

Si attesta su livelli piuttosto elevati.

bill_carson (ha votato 8,5 questo disco) alle 0:30 del 23 settembre 2013 ha scritto:

un disco che nobilita la parola "pop".

bill_carson (ha votato 8,5 questo disco) alle 0:30 del 23 settembre 2013 ha scritto:

un disco che nobilita la parola "pop".