Elbow
The Seldom Seen Kid
Gli Elbow rappresentano una di quelle congiunture perfette del pop britannico grazie alle quale si giunge alla conclusione che c’è vita intelligente oltre il brit-pop dei ‘90s. Il gruppo si autodefinisce “progressive senza gli solo” e in effetti non è un teorema del tutto campato per aria, se non altro per quanto riguarda il fulminante esordio Asleep in the back (2001) che poteva essere tranquillamente inquadrato (e infatti lo fu) come un figlioccio derivativo dei Radiohead (come lo potevano essere all’epoca Muse e Clinic). In realtà lo stile degli Elbow non è di così facile catalogazione.
L’attitudine generale affonda le sue radici in un pop languido e per certi versi tragico su cui gioca un ruolo molto importante la voce di Guy Garvey, però i rimandi non si possono limitare ai Radiohead melodici dei ‘90s. Altri nomi ingombranti come Doves e Coldplay possono essere tirati fuori dal catalogo, e con loro una scia di cloni britannici di livello inferiore (Embrace, Travis, Starsailor, eccetera).
D’altronde c’era in Asleep in the back quell’aria piena di arrangiamenti, quella sorta di tappeto sonoro costantemente in piedi che sottostava alle tenere melodie. E qui entra in gioco il progressive di cui parla il gruppo: tralasciando la pomposità degli assoli ci si limita a curare ogni brano in maniera maniacale, aggiungendo piccoli effetti qua e là, studiando attentamente ogni nota e dilatando per bene l’insieme su una superficie a tutto tondo. Di qui i riferimenti tirati in ballo a proposito di Genesis, Peter Gabriel e Talk Talk. Riguardo alla devastante malinconia non c’è neanche da parlarne, la musica britannica ne è piena zeppa (per restare nell’ambito basterebbe aggiungere calibri come Arab Strap, Tinderstick, Smog).
Quello che era uno dei gioielli più luccicanti del pop ‘00s non trovava però un degno seguito in Cast of thousand (2004), che si sbilanciava eccessivamente verso un suono talmente emotivo da diventare borioso e pesante. La situazione migliorava parzialmente con Leaders of the free world (2005) che ritrovava un pò di verve e reinvestigava sonorità intriganti. Se i Coldplay sono andati in costante declino e X&Y ha rappresentato la disfatta definitiva il terzo album degli Elbow lasciava insomma capire che non era finita lì, che forse si poteva ancora dire qualcosa di importante.
Ed ecco che dopo tre anni la dichiarazione prende corpo e nome: The seldom seen kid, “il ragazzo visto di rado” che merita un’analisi approfondita: si parte con Starlings, il suo delicato cantato e la sua travolgente passione tragica (degna dei migliori Eels) che si concretizza negli imperiosi stacchi della tastiera a intorbidire il brano. The bones gioca coi generi e parte da un ritmo world esotico su cui si spande la voce più spedita di Garvey, accompagnata qua e là da cori e synth vari; d’un tratto inaspettatamente compare una chitarra che mette a ferro e fuoco l’atmosfera con un’accelerazione degna dei migliori Muse; il finale resta in bilico tra il ritmo tribale, il suono più ruvido e le soffici melodie vocali, spegnendosi poi lentamente sull’eco lontana di un assolo di tromba solitario.
Mirrorball è un dream-pop carico di arrangiamenti che avanza calorosamente ipnotizzando in silenzio. Stupisce la capacità di cambiare continuamente registro e Grounds for divorce conferma lo stupore con il suo art-rock alla dEUS che vagheggia tra una chitarra prima zingara poi heavy mentre An audience with the pope pur restando sensuale e bollente sembra precipitare l’ascoltatore in una serata stellata e misteriosa.
Weather to fly gode di una dolce linea di pianoforte e di un cantato stanco e strascicato che introduce in una dimensione quasi digitale, senza però diventare fredda. La musica degli Elbow appare spesso come un meccanicismo ritmico di temperatura elevatissima. A confermare l’impressione l’esasperante intensità emotiva (prima strumentale poi vocale) di The loneliness of a tower crane driver, che diventa insopportabilmente bella e tragica (moderno canto di sirene diaboliche) nell’intrecciarsi finale tra un superbo Garvey e la fitta rete di synth, tastiere e archi a supporto.
La swingheggiante The fix smorza un pò la tensione ma per la prima volta anche la qualità sembra risentirne. Forse però è tutto calcolato per offrire un attimo di tregua emotiva all’ascoltatore prima dei tre micidiali brani conclusivi: Some riot parte tra piccoli cristalli di pianoforte e chitarra che formano un incantevole incastro onirico su cui si staglia lo struggente canto di Garvey che quando arriva al ritornello “is breaking my heart” dà l’impressione che un cuore si stia davvero spezzando in qualche luogo remoto.
On a day like this è uno spiraglio di luce che si fa largo tra gli archi finalmente più ariosi per una base ritmica complessivamente meno cupa e più briosa. Il brano sfocia nell’ennesimo splendido finale in cui si incastrano coro, cantato radioso, chitarra svolazzante e archi frastagliati.
Friend of ours, ultimo tassello di un disco incatevole, si apre con una chitarra malinconica e l’incantevole accompagnamento della coppia piano-archi. Tra i sussurri di Garvey si ha l’impressione che la musica prenda corpo in un angolo della stanza. E si vorrebbe ammirarla ma non si riesce. L’atmosfera a lume di candela creata dal brano ha reso l’aria troppo soffusa per vederci. Permette solo di sentire col cuore.
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