R Recensione

7/10

Goldfrapp

Seventh Tree

La pecorella smarrita ha ritrovato il suo gregge.

Dimesse le pacchianerie techno dello sfrontato e luccicante “Supernature” del 2005, e con esso il video stroboscopico e spudoratamente sensuale di “Ooh La La”, Alison Goldfrapp, diafana musa, ispiratrice, fondatrice e motore del duo che, da sette anni, porta il suo cognome, decide di optare per una marcia indietro tanto decisa quanto sorprendente e vigorosa. Inusuale perché, viste e considerate le cospicue vendite del disco sopraccitato, si sarebbe potuto pensare ad una politica protezionistica del sempreverde aforisma “squadra che vince, non si tocca”. Ed invece, la bella Alison, dopo aver rimesso con cura nel suo guardaroba paillettes e lustrini, si proietta indietro nel tempo sino al 2001, anno in cui, col collega/magnate Will Gregory, sfondava nel mercato discografico con “Felt Mountain”, piccolo gioiello d’arte onirica, pop introspettivo ed assoggettante (ed eccola, quindi, la determinazione). Location per la registrazione: una casa fra i boschi.

Seventh Tree”, nuova fatica dei Goldfrapp, rinnega dunque il passato prossimo per andare ad abbracciare quello remoto. Pare che il tutto sia sbocciato in seguito ad un sogno compiuto dalla frontwoman, nel quale certamente l’albero del titolo è un metaforico esempio del ritorno alle radici. Ritornano dunque prepotenti le atmosfere eteree, gli archi, quell’espressione di sognante indeterminatezza che la stessa Alison, per l’occasione leopardiana donzelletta, presenta in copertina. Via i synth, gli eccessi glam, i loop martellanti. Ed il risultato, seppur certo non esente da scivoloni, è più che apprezzabile.

L’unico collegamento con “Supernature” che si può fisicamente riscontrare nel disco è allo stesso tempo, a detta di chi scrive, il brano più debole del decalogo: “Cologne Cerrone Houdini”, dedicata alla figura misteriosa dell’illusionista ungherese, è un tripudio di vistose sviolinate e patinate ombreggiature, che nemmeno un basso in primo piano riesce a ricacciare sullo sfondo. Anzi, è proprio questo l’elemento che, alla fine, stona e rende il tutto poco digeribile.

Decisamente più convincente il trittico d’apertura, una sventagliata di pezzi dall’altissimo tenore qualitativo e dell’ascendente potenziale radiofonico. In “Clowns”, forse il picco emotivo dell’album, il dream pop angelico degli esordi assume connotati paradisiaci grazie alle peripezie vocali della Goldfrapp, sorretti dapprima da uno spartano giro di chitarra e poi, con sempre maggior liquidità, da un maestoso insieme di violini. Sulle stesse coordinate si muove la successiva “Little Bird”, citazionismo evidente –ma non per questo molesto- a Kate Bush, che viene tuttavia movimentata da una scarica elettronica algida e risonante. “Happiness”, secondo singolo estratto, è infine il miglior compromesso finora sperimentato: psichedelia low-fi à la McCartney, volante e vaporosa, con refrain corale leggero e ben costruito.

Poi, si può considerare “Seventh Tree” come una miscela, a volte riuscita, a volte risolutamente più ardita, di brani catchy, orecchiabili e con poche pretese extra-chart (doveroso citare il singolo trainante “A&E”, semplice e contagioso, ma anche il pianoforte caramellato di “Eat Yourself”, che finisce per parodiarsi e confondersi fra le proprie maglie) ed altri molto più sperimentali –stando, ricordiamolo, ai canoni del duo-, come il nu-gaze fluttuante della bella “Road To Somewhere”, apice del lavoro per chi sta scrivendo, o la conclusiva, epica “Monster Love”, che viaggia fra new wave e shoegaze, per un risultato incisivo ed arioso nell’insieme.

Ecco dunque che, alla fine di questi quarantuno minuti, “Seventh Tree” ci riconsegna una nuova band, ripulita dagli eccessi e pronta a ripartire laddove la bella favola aveva avuto inizio. Bravi, non sempre attenti e certosini, ma senza dubbio molto più coraggiosi di quanto già previsto, i Goldfrapp passano la prova del nove con una sufficienza più che ampia. Aspettando, magari, al prossimo giro, un disco più completo e versatile.

Perché chi ben comincia, è a metà dell’opera.

V Voti

Voto degli utenti: 6,6/10 in media su 11 voti.
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REBBY 8/10
Cas 5/10
target 7/10
ROX 8/10

C Commenti

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REBBY (ha votato 8 questo disco) alle 8:20 del 6 giugno 2008 ha scritto:

A me è piaciuto anche Cologne Cerrone Houdini

(anche se sia il giro di basso che l'iniziale

sviluppo del brano mi sembra rubato a Gainsbourg),

quindi sarò piu' abbondante nel voto, nonostante

mi trovo sostanzialmente d'accordo con Marco.

target (ha votato 7 questo disco) alle 11:16 del 6 giugno 2008 ha scritto:

D'accordo! E in "Happiness" ci sono pure i Saint Etienne, che ogni britannico con tendenze pop in technicolor ha nelle vene.

Mr. Wave (ha votato 7 questo disco) alle 19:27 del 6 giugno 2008 ha scritto:

Imprevisto O_o

Mah... chi poteva immaginare che Alison Goldfrapp, tanto ammaliante musa in "Felt Mountain" quanto sensuale provocatrice in "Black Cherry" e "Supernature", sarebbe tornata nel sottobosco sonoro - quell'ambientazione verde e rigogliosa, eppure paradossalmente malinconica - che aveva contribuito al fascino romantico dell'opera prima targata 2001. Io no di certo e voi!?

Utente non più registrato alle 19:35 del 11 dicembre 2009 ha scritto:

Deciditi figlia mia! Intanto...

ROX (ha votato 8 questo disco) alle 20:23 del 8 gennaio 2011 ha scritto:

Io gli ho praticamente scoperti con questo lavoro (anche se qualcosa di Felt mountain l'avevo già sentita). Trovo questo disco molto bello... ma visto che nell'articolo si cita Kate Bush come mai nessuno ha ancora scritto qualcosa sulla sua musica?