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7/10

High Highs

Open Season

Aprono anche gli High Highs (duo australiano di stanza a New York), decisamente in punta di piedi, questa nuova stagione musicale. Dopo un primo EP datato 2011, il loro esordio è nei fatti un dream pop atmosferico, apparentemente deflesso; sicuramente emotivo.  

Non manca di sincretismo stilistico, a ben vedere, il loro sound: in "Flower Bloom", sulla traiettoria minima del basso, il primo passaggio chitarristico sfoggia un'eleganza pop-wave in assonanza con lo stile xx (accade anche nei vapori di “In a Dream”), mista ad una epicità soffusa – a segno.

Lungo il disco, il tratto melodico è complemento ideale per l’assetto minimo di una scrittura sì derivativa ma con discreto potenziale evolutivo.

La voce di Jack Milas è fluida, a tratti intorpidita benché passionale: si districa abile su levità di sospiri, chorus, e falsetti tenui ben modulati  (mai eccessivi); sovente, ed è un vero piacere, ci si scopre faccia a faccia con linee splendide (nell’apice di “In a Dream”, in "White Water").

Le ritmiche, mai invasive, si espongono al punto giusto accelerando le dinamiche e intensificando le strutture ("Milan",“Open Season”, “Phone Call”). Le parti di chitarra, nei momenti più nitidi, si raccolgono in un ideale connubio di folk ’70s e universale comunicatività (in “Pines”; à la Bon Iver in  “Once Around the House”, “Bridge”).

Un disco anche atmosferico "Open Season", si diceva: via un utilizzo dosato della componente elettronica, a volte manovrata nel dietro le quinte, a volte in modo più esposto (“Phone Call”, “Flower Bloom”) a raddoppiare gli assetti dei brani - anche in corredi ambient.

D'interesse il rigore dream-folk (per interpretazione vocale, Midlake) di “White Water” (specie lo splendido cambio di veste a 2’43’’), così come lo scorcio di luce tra le brumosità di “In a Dream”; ma è “Once Around The House” a spiccare come composizione: attacco sad, ad introdurre un movimento di chitarra acustica di portata olistica (come detto, Bon Iver). E poi fratture atmosferiche (dei piatti: Grizzly Bear), e ingresso perfetto, centellinato, di tastiere vintage – sul fluire.

Pare quantomeno dissonante che, da tale amalgama stilistica, un po' di noia sopraggiunga (non si migliora aumentando le dinamiche: lo prova un brano ossessivo come "Love is All"): maggiore compattezza, un ricalibramento delle strutture, e una scaletta in sottrazione (l’appesantimento finale di "Love is All" e “Slow It Down”) avrebbero giovato non poco alla gestalt del disco.

Ad ogni modo, un disco che può, in alcuni suoi brani, regalare notevoli soddisfazioni.

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salvatore alle 11:13 del 18 febbraio 2013 ha scritto:

Ho letto la recensione e me lo son subito procurato: sembra proprio l'album che mi ci voleva adesso... Sono all'inizio, ma "Milan" mi ha già conquistato. I Grizzly (o, per essere ancora più moderni, i Local Natives ), a tratti, li ritrovo anche nella voce. E non parlo di timbro, quanto di utilizzo che si fa di essa. Bravo Mauro

Filippo Maradei alle 21:47 del 21 febbraio 2013 ha scritto:

Niente male: per il momento sono arrivato solo a metà disco, ma già mi ha catturato il giusto: davvero garbata come prima parte. Non mi dispiacciono, molto dream, atmosferici, ma anche concreti nella scrittura delle canzoni, e vintage in alcuni effetti (dici bene Mauro). Ottima proposta, ripasserò da queste parti!