High Highs
Open Season
Aprono anche gli High Highs (duo australiano di stanza a New York), decisamente in punta di piedi, questa nuova stagione musicale. Dopo un primo EP datato 2011, il loro esordio è nei fatti un dream pop atmosferico, apparentemente deflesso; sicuramente emotivo.
Non manca di sincretismo stilistico, a ben vedere, il loro sound: in "Flower Bloom", sulla traiettoria minima del basso, il primo passaggio chitarristico sfoggia un'eleganza pop-wave in assonanza con lo stile xx (accade anche nei vapori di In a Dream), mista ad una epicità soffusa a segno.
Lungo il disco, il tratto melodico è complemento ideale per lassetto minimo di una scrittura sì derivativa ma con discreto potenziale evolutivo.
La voce di Jack Milas è fluida, a tratti intorpidita benché passionale: si districa abile su levità di sospiri, chorus, e falsetti tenui ben modulati (mai eccessivi); sovente, ed è un vero piacere, ci si scopre faccia a faccia con linee splendide (nellapice di In a Dream, in "White Water").
Le ritmiche, mai invasive, si espongono al punto giusto accelerando le dinamiche e intensificando le strutture ("Milan",Open Season, Phone Call). Le parti di chitarra, nei momenti più nitidi, si raccolgono in un ideale connubio di folk 70s e universale comunicatività (in Pines; à la Bon Iver in Once Around the House, Bridge).
Un disco anche atmosferico "Open Season", si diceva: via un utilizzo dosato della componente elettronica, a volte manovrata nel dietro le quinte, a volte in modo più esposto (Phone Call, Flower Bloom) a raddoppiare gli assetti dei brani - anche in corredi ambient.
D'interesse il rigore dream-folk (per interpretazione vocale, Midlake) di White Water (specie lo splendido cambio di veste a 243), così come lo scorcio di luce tra le brumosità di In a Dream; ma è Once Around The House a spiccare come composizione: attacco sad, ad introdurre un movimento di chitarra acustica di portata olistica (come detto, Bon Iver). E poi fratture atmosferiche (dei piatti: Grizzly Bear), e ingresso perfetto, centellinato, di tastiere vintage sul fluire.
Pare quantomeno dissonante che, da tale amalgama stilistica, un po' di noia sopraggiunga (non si migliora aumentando le dinamiche: lo prova un brano ossessivo come "Love is All"): maggiore compattezza, un ricalibramento delle strutture, e una scaletta in sottrazione (lappesantimento finale di "Love is All" e Slow It Down) avrebbero giovato non poco alla gestalt del disco.
Ad ogni modo, un disco che può, in alcuni suoi brani, regalare notevoli soddisfazioni.
Tweet