It Hugs Back
Inside Your Guitar
Matthew, Paul, Dimitri e Jack. Quattro ragazzini della contea del Kent dall’aria ingenua e simpatica, almeno a giudicare dalle foto. Immagini che immortalano un improbabile e variopinto gruppo di amici: c’è il finto nerd con i suoi capelli a spazzola, occhiali e maglioncino rosso, c’è lo spilungone magro magro con una felpa enorme e i due capelloni alternativi. Non puoi non pensare all’high school, non puoi non vederli ad ascoltare i Good Charlotte per tutta la giornata e a fare continuamente gli idioti con le coetanee.
Poi ascolti la loro musica e scopri che in fondo non sono poi così superficiali e immaturi come è legittimo aspettarsi da adolescenti della loro età. Scopri che hanno un certo estro artistico e che ci sanno pure fare; e scopri che forse non è una cosa così strana che la 4AD non abbia esitato un istante a assicurarsi la firma di questi giovani.
Già la 4AD. Proprio quella, la mitica casa discografica indipendente specializzata in sonorità new wave e dream pop che può vantare la produzione di artisti del calibro di Cocteau Twins, Dead can dance, Birthday party, Blonde redhead, Bauhaus e Red house painters, solo per citarne alcuni.
Ogni investimento è un rischio. Ciò vale ancora di più nel mondo del music business, dove la tecnologia e le mode tendono a rendere incontrollabili le oscillazioni della domanda in modo radicale all’interno di intervalli temporali brevissimi. A giudicare la qualità di questo esordio, però, mi sento di dire che quello della 4AD è stato un investimento assai assennato.
Investimento quantomeno coerente comunque, in cui il dream pop coniato dalla Frazer e soci è senz’altro il riferimento musicale portante di questo Inside your guitar, ma è più in generale l’adesione al tipico sound alternative pop scozzese e al suo percorso storico che dai Cocteau Twins porta fino ai Belle and Sebastian passando tramite le rivoluzioni Jesus and Mary Chain e My bloody Valentine che rende dei “diversi” gli it hugs back in casa loro, nella loro Inghilterra.
Senso di estraneità che è poi accentuato da un'altra importante influenza che travalica i confini nazionali inglesi (in questo caso che travalica anche il mare del Nord). Trattasi della vivacissima scena svedese, la Labrador records, i Radio dept. Le analogie con questi ultimi forse sono addirittura le più evidenti per la capacità di fondere dream pop, shoegaze e twee pop eppure, curiosamente, sembra che la critica inglese non si sia accorta di questo facile paragone, né di quello con la scena scozzese, preferendo associare i Nostri a gruppi come Stereolab (di base a Londra); e chissà se questa scelta è dovuta semplicemente ad esigenze divulgative (fare capire ai lettori le sonorità del gruppo facendo riferimento a gruppi localmente più conosciuti) o se nasconda anche un sottile orgoglio di carattere nazionalistico.
Fatto sta che l’esordio di questi It hugs back è senz’altro di ottimo livello. Q introduce il loro sound composto e soffuso. Dolci melodie pop sono cullate dal delicato flusso delle tastiere mentre qua e là qualche riverbero di scuola shoegaze emerge, ma mai in maniera prepotente. Quel che conta è l’armonia. Anche il cantato, delicato e intimista, sempre in sottofondo, è funzionale a questa esigenza. Work day snocciala una languida e malinconica melodia pop sempre vividamente intrecciata e mai disgiunta da atmosfere profondamente dreamy. I radio dept. Sono più vicini che mai.
Più ossessiva e rumorosa è Don’t know, uno dei pochi pezzi in cui la batteria non è sacrificata all’esigenza di creare scenari sonori di paradisiaca tranquillità come invece avviene nelle tenui ballate di Forgotten song e Soon con le quali l’album sembra scivolare in un easy listening un po’ monotono. A risollevarne immediatamente le quotazioni sono però Back down e soprattutto Unawere dal tappeto sonoro più robusto e aggressivo che fa percepire il cantato come distante ma sempre caldo e avvolgente.
Il finale riserva altre piacevoli sorprese, come se il gruppo avesse finalmente preso fiducia nei suoi mezzi e consapevolezza delle proprie capacità. Ecco allora il power-pop di Now and again, indubbiamente il momento più vivace del disco, accompagnato nel finale da un appena percettibile effetto feedback, e soprattutto la finale Reharsal, una piccola suite di sei minuti in cui il cantato si fa più tagliente, la sezione ritmica meno timida e i riverberi distorti di Jesus and mary chain-iana memoria spesi senza riserbo infrangono il sogno e introducono l’incubo proprio pochi istanti prima del risveglio. Un risveglio da cui se ne esce senz’altro scossi, sorpresi, felici.
Tweet