Papercuts
Fading Parade
Il recente passaggio alla Sub Pop di Jason Robert Quever e dei suoi Papercuts rappresenta - già da ora – un’opportunità importante nonché necessaria per trovare nuovi stimoli all’interno delle dinamiche musicali del gruppo (soprattutto, dopo l’opaco You Can Have What You Want) e - perché no? – per potersi esporre ad un pubblico ben più vasto rispetto a quello ottenuto negli anni precedenti. Sotto l’”egida” di Thom Monahan – già produttore in passato di Au Revoir Simone e Beachwood Sparks – e grazie alla frequentazione ben più assidua degli altri elementi del gruppo all’interno progetto (tale da non far sembrare, a differenza degli episodi precedenti, il nuovo disco un progetto solista di Quever) i Papercuts compiono il decisivo passo in avanti (direi un salto qualitativo) nella loro discografia. Fading Parade, quarto disco di Quever e soci, è frutto di una lunga sessione di registrazione a Sacramento, poco lontano dalla loro “scena” natia (San Francisco): il prodotto “finito” è un disco dream pop intimista. E sì, molto crepuscolare.
Una delle peculiarità di Fading Parade è rappresentata, appunto, dall’incessante e ossessivo gioco di riverberi e – soffici – dilatazioni sonore. L’ascolto è, in questo senso, una piena immersione in composizioni ricche d’atmosfera, sognanti, sebbene lineari nel loro incidere, sonnolente, quasi apatiche nel non svelarsi mai completamente. I ritmi spesso rallentati e volutamente lo-fi; le trame pop in continua dissolvenza; la densità tenera ed eterea del suono; la fragilità insita nelle liriche, cariche di sentimento ma anche di lucida osservazione; le armoniose venature psichedeliche e il poco ingombrante substrato folk: accomunare gli elementi del “sound” di questo nuovo album dei Papercuts (e, in parte, anche dei precedenti) con alcuni dei tratti che contraddistinguono gruppi della recente (e non) scena indie pop, come (tra gli altri) Seabear, Tamaryn, Grizzly Bear e Beach House (ma anche di band shoegaze e dream pop del passato, si pensi a Galaxie 500 e Slowdive), non sembra così azzardato.
La densa e corale Do You Really Want To Know e il torbido abbattimento di Do What You Will ("you come as you please, and go as you need") conquistano per la loro immediatezza e si insinuano “dentro” sin dal primo ascolto. La tenue gioiosità in salsa psichedelica di Chills è un tripudio di colori, sorretta da un ritmato sì sfuocato e profondo, ma molto ben sostenuto; davvero sublime, in coda, l’incidere White are the Waves, così come degni di nota risultano gli “inseguimenti“ melodici, in Wait Till I’am Dead, al cantato – o meglio, ai sospiri – di Quever . E se I’ll See You Later I Guess - tra gli episodi più riusciti - sa essere così evocativa, lo deve certamente alla splendida e onirica trama d’apertura, una vorticosa cantilena per tastiere. In fondo il disco rallenta, volgendo al termine con le dolenti ballate Winter Gaze e Charades, quest’ultima contraddistinta da celestiali passaggi strumentali.
Resa sapientemente densa e orchestrale dalla gran quantità di strumenti utilizzati – come riportato dalla stessa Sub Pop: chitarre, pianoforte, moog, mellotron, autoharp, echoplex ecc – la struttura delle composizioni, in generale, mostra una notevole compattezza d’insieme. Ciononostante, Fading Parade è un disco "sfuggevole" nel suo animo: difficile, in questo senso, captare nella sua interezza la gestalt emotiva che lo mantiene così coeso. Forse un turbamento “represso”, in parte sublimato (sebbene mai completamente) anche dagli innocui e carezzevoli slanci vocali di Jason Robert Quever (veri punti di forza del lavoro). Da parte di chi scrive, è però certa la consapevolezza che Fading Parade rappresenti uno dei dischi indie/dream pop più riusciti dell’ultimo periodo.
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