Sigur Rós
Með Suð Í Eyrum Við Spilum Endalaust
Il ronzio che risuona nelle orecchie dei Sigur Rós è quello del cambiamento.
Lanno scorso, gli islandesi avevano anzitempo testimoniato la volontà di metamorfizzare il loro modus operandi, da sempre architettato in unottica sospesa a metà fra dream pop, post rock e glitch. Simbolismo che, già col passare del tempo, aveva acquistato molteplici sembianze: dai tunnel lisergici dello stupefacente esordio Von alla tetra disperazione dei cupi untitled di (), dalle prime aperture di Ágætis Byrjun fino ai lustrini dellultimo Takk (nella lingua natìa dei quattro, grazie), più concentrato a ricercare latmosfera piuttosto che il riff, la reticenza piuttosto che la parafrasi, letere piuttosto che il terreno. Un esperimento che aveva fatto storcere il naso a qualcuno, compiaciuto i più. Col doppio Hvarf/Heim, perlopiù una rivisitazione degli highlights, si assisteva ad una repentina ricomparsa delle chitarre, sacrificate troppo spesso nellultimo periodo in favore di refrattarietà venefiche, ed in particolare al recupero di quelle sonorità psichedeliche, orientate soprattutto nella direzione dei Pink Floyd barrettiani, che già puntellavano i loro primi passi.
È bastato un giro di lancetta completo, dodici mesi appena, per far sì che i tornassero sulle scene. E lo fanno con un lavoro che è destinato da subito a far parlare e discutere, conquistare e dividere: Með Suð Í Eyrum Við Spilum Endalaust (Con Un Ronzio Nelle Orecchie Suoniamo AllInfinito) è il giro di boa che segna la fine di un determinato periodo del gruppo, pronto ormai ad ambire le grandi folle. Ma cosa si rinnova nella loro musica, cosa fa preannunciare scandalo e spaccatura?
La risposta è tuttaltro che amletica, e si palesa fin da subito, dopo pochi ascolti.
La scaletta, infatti, riserva non poche sorprese sin dallattacco di Gobbledigook, primo singolo estratto, che suona più o meno come se Jón Þor Birgisson e compagni venissero risucchiati nelle spire floreali di Woodstock, fra pregevoli tourbillon acustici e spargimento a profusione di handclappin. Non basta. Perché emerge dal tessuto armonico anche una vena pop meno elitaria e fluttuante ed, anzi, aperta maggiormente ad influenze esterne più o meno deprecabili, più o meno note, più o meno commerciali. Suona perfetto, dunque, il mosaico per voce e chitarra acustica di Góðan Daginn, non troppo lontano dai Radiohead più intimisti, o il trionfo di archi e ottoni (marca del quartetto Amina, ancora una volta) nella cosmica e pulsante Við Spilum Endalaust, magnifica nella sua voluta orecchiabilità. Ancora migliore è Inní Mér Syngur Vitleysingur, uno dei brani più festosi mai prodotti dal complesso, dove incalzanti contrappunti di xilofono e pianoforte schiacciano armoniosamente un coloratissimo retaggio da banda paesana. Di Von, almeno qui, nemmeno lombra più accennata. Gli islandesi si sono trasformati: la fiabesca risposta a chi li tacciava di impalpabilità è quella di dar fondo alle chitarre, seppur non collegate agli amplificatori, e di tirare fuori melodie granitiche ed inattaccabili, sotto ogni punto di vista.
Spiazzante, ma non indigesto, il nuovo corso dei Sigur Rós, seppur senza conoscerne modalità di evoluzione e significato, piace molto. Qualcosa, però, cambia ancora e, repentinamente, si ritorna alle atmosfere di Takk così liriche, dilatate ed avvolgenti. Festival è un vero e proprio micro-musical di quasi dieci minuti, che ricalca il canovaccio dellipotetica suddivisione post rock fra tenue e crescendo sempre più coraggiosi. La voce di Birgisson, ancora oggi, riesce a toccare vette emozionali altissime, a strimpellare le corde interiori dellascoltatore, sia con un falsetto sussurrato che nel finale, vero e proprio sfogo orchestrale di fanfare più o meno assortite, dove il suo timbro si irrobustisce secondo per secondo a confluire in un unico coro. Pure Ára Bátur si innesta su questi cardini, con una (spropositata) lunghezza simile, sostituendo gli archi con il pianoforte, ma non regala granché. O meglio: allo scoccare della fine rimane in bocca lamara fascinazione della ripetitività.
Lultima pop song della lista, la tribale Suð Í Eyrum dal ritmo danzereccio con vellutate distorsioni elettroniche, ci conduce infine verso il dualismo finale, quello di Straumnes e All Alright. Mai lIslanda cera sembrata terra così misteriosa e fredda: tappeti microclimatici consumati rigorosamente a temperatura artica, in una minimalistica odissea ambientale che prende un po da Brian Eno, un po dagli Stars Of The Lid, dove lunica traccia di calore può essere solo e solamente, ancora una volta, la delicatissima vocalità di Jónsi, anima in pena sperduta nel permafrost glaciale di quei brevi rintocchi melodici. Il disco si chiude così, con un senso di vuoto.
Solo il tempo potrà dirci se Með Suð Í Eyrum Við Spilum Endalaust sia un gran disco, una svolta decisiva, un classico album di transizione oppure un lavoro da dimenticare. Fino ad allora, prevarrà la sensazione che, forse, non sia nemmeno una di queste quattro ipotesi. Solamente, il sospetto di aver assistito a qualcosa di relativamente trascurabile, un valore aggiunto che nulla può più offrire, come un tempo, ma che nemmeno nuoce. Forse, però, dopo tredici anni, la rosa della vittoria non ha più in sè la spina catartica.
E bello doppo il morire vivere anchora (Leonardo Da Vinci)
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