Slowdive
Just For A Day
“Dream-pop” e “shoegaze”, ovvero dei celestiali e sognanti voli di beatitudine nei cieli plumbei d’Oltremanica. Anche a noi umili cronisti dal ciuffo ribelle può capitare qualche curiosa intuizione lessicale. Spesso è la solita botta di culo, tipo il rigore su Grosso al 93’ di Italia-Australia, più raramente un’analisi tanto lucida e acuta da leccarsi i baffi. Banali etichette di confortevole onanismo-rocche, talvolta inutili e un po’ ridicole (basterebbe tradurle), che però creano sensazionalismo e chiacchiere. Nei primi anni Novanta, in terra d’Albione, “shoegaze” era la parolina magica che apriva qualunque cacchio di porta ai furbi scribacchini musicali, mentre in America imperversava il verbo grunge di Seattle. Indicava quei musicisti letteralmente ripiegati sui propri strumenti durante la trance agonistico-esecutiva di note galleggianti tra psichedelia, dream-pop e feedback, che collimavano felicemente in un ambient paradisiaco e distorto: i famigerati “fissa-scarpe”.
“Shoegaze” era l’eccentrico neologismo che aiutava Rob Fleming a incasellare nello stesso scaffale gruppi come Curve, Ride, Lush e i pionieri ultra-sonici My Bloody Valentine del geniale Kevin Shields. Enormi muri di chitarra su melodici mantra-pop, qualcuno scrisse “…dei Beach Boys in acido…” parlando di Shields & co. e non si sbagliava. Ascoltavi “Loomer” e avevi l’inquietante desiderio d’inchiodare al muro il tuo peluche di Winnie The Pooh preferito. Poi c’erano altri che rallentavano ulteriormente il sound originale, fino a creare vere oasi atmosferiche di pace. Un’esperienza così intimamente spirituale che in confronto un pullman di pellegrini a San Giovanni Rotondo sembrava una fottuta comitiva d’edonisti in visita al Luxor di Las Vegas (o a Graceland, fate voi).
“Feels like all the days are gone. Just catch the breeze..”
Gli Slowdive nascono a Reading nel 1989, dall’unione di tre giovanissimi ventenni: Neil Halstead e Rachel Goswell alle chitarre e voci e Nick Chaplin al basso, uno che riceverà nel sonno l’input per il futuro nome della band (forse tramite il vecchio brano di Siouxsie & The Banshees). Completata la line-up con il chitarrista Christian Savill e Simon Scott alla batteria, gli Slowdive pubblicheranno numerosi ep che manifestano un talento già cristallino e peculiare. “Just For A Day” viene dato alle stampe nel settembre 1991 ( un mese discograficamente “biblico”, quell’anno), grazie alla scaltra Creation della volpe Alan McGee, bravo a intuire le potenzialità dei ragazzi dopo gli extended-play “Morning Rise” e “Holding Our Breath”.
“Watch the waves so far away. They’re washing ‘cross the paths that i have made. Leaving all my sins, i turn away..”
Provate ad ascoltare “Erik’s Song”, traccia 05 dell’album, chiudete gli occhi e liberatevi. Liberate l’anima, ora il tempo non ha confini e trascende i tormenti dell’uomo moderno. L’evocativo strumentale dei Slowdive attraversa i ricordi del nostro cuore su landscapes eterei e remoti. Sognare ha le ali di Sam Lowry e i delicati contorni della stupenda cover, virata in un rosso debordante e sfuocato: l’immagine al ralenti della giovane fanciulla, in una danza onirica e sensuale, visualizza in modo esemplare le meraviglie dei 43 minuti di “Just For A Day”. Solenni tastiere aprono l’incedere autunnale di “Spanish Air”, cupa preghiera tra paesaggi brumosi e improvvisi lampi elettrici. La memoria è un animale ferito in un altrove ancestrale (l’ascesi divina “Catch The Breeze”), l’incantesimo e catarsi di “Celia’s Dream”, il lontano naufragare nella malinconia cosmica della “Ballad Of Sister Sue”.
Il canto ipnotico di Rachel è un perpetuo viaggio mentale (gli arpeggi fatati dell’ultraterrena “Brighter”), l’ultimo raggio di luce al tramonto, tra droni-ambientali e invocazioni pagane (“The Sadman”, memore del Robert Smith di “Disintegration”). “Waves” toglie il fiato, con le sue incredibili chitarre che sembrano fiocchi di synth in un crescendo eterno. Il vortice emotivo e abissale di “Primal” chiude i titoli di coda indelebilmente. “Just For A Day” suggestiona i sensi come il mondo visto da un bambino ( e Brian Eno, folgorato, collaborerà nel successivo “Souvlaki”). Un sogno a occhi aperti, soltanto di un giorno eppure infinito. Gli shoegazers avevano sempre lo sguardo basso, immersi nelle onde di un rumore celeste. Questo narra la leggenda. Ma la loro musica volava altissima, oltre l’esosfera.
“..And when it all looks brighter, just turn around and smile..”
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