Still Corners
Creatures Of An Hour
Più o meno tutti, da piccoli, siamo stati misteriosamente attratti e, in modo altrettanto irrazionale, spaventati dagli angoli più silenziosi e bui del mondo. Fosse uno scantinato zeppo di roba vecchia, di pile di giornali, di mobili e specchi dei tempi della nonna che delineavano forme inquietanti nella penombra o quel tratto di cortile brutto, senza lampioni, che attraversavi di corsa, e con gli occhi semichiusi, per tornare a casa. Di questi piccoli brividi, di questo oscuro grumo di paure infantili sempre sul punto di sciogliersi alla luce del giorno o di un interruttore, si nutrono i suoni e le parole degli Still Corners. Gruppo anglo-americano a tutti gli effetti, di stanza a Londra ma editi dalla sempre più fervida Sub Pop, capitanato dal songwriter Greg Hughes e dalla cantante Tessa Murray che si muove su territori borderline fra dream-pop, indie-pop e dark-wave anni 80 impreziositi da atmosfere gotico-esoteriche che si stemperano in un non so che di solare e fanciullesco.
C’è anche chi li definisce “cinematici” e loro stessi ammettono di avere un’autentica passione per i classici del terrore in bianco e nero e i film europei delle varie nouvelle vague(s), tanto che, aguzzando l’orecchio e ascoltando bene tra le righe del pentagramma, pare persino di cogliere echi rarefatti del Morricone thriller-horror dei primi settanta, quello delle cantilene infantili e delle lallazioni inquietanti come “La Corta Notte Delle Bambole Di Vetro” o “Chi l’ha Vista Morire?”. Per il resto non mancano inferenze che rimandano a gruppi come The XX o gl’inevitabili Beach House, ma rielaborate attraverso una matrice e una poetica, quella accennata poc’anzi, piuttosto obliqua e personale. Il pop onirico degli Still Corners fruscia serico su tappeti di tastiere (le sonorità dell’organo in evidenza) con intermittenti fraseggi chitarristici sottotraccia come nell’iniziale “Cuckoo” , mentre laddove sono questi ultimi a prendere (leggermente) il sopravvento i brani acquistano una certa consistenza dark-wave come nella bella “Endless Summer” (anche se “Endless Sunset” sarebbe stato forse più azzeccato come titolo) o nell’angolosa “Into The Trees” con il suo ampio ventaglio di effetti di chitarra nella coda strumentale.
Nonostante l’approccio circolare della scrittura e il minimalismo trasognato delle linee vocali della Murray, il disco rivela diverse frecce al suo arco come la ritmica in ¾ con la cassa che batte scandita e il rullante che frulla in controtempo di “Circulars” e “Velveteen”, seducente minuetto adolescenziale per aspiranti “vergini suicide”, il sopore etereo e la dolcezza del carillon fiabesco di “White Season”, il quasi dream-folk di “The Twilight Hour” che parte come un pezzo alla Marissa Nadler e poi cresce ornando di acuti spettrali la solita melodia bisbigliata, la vampiresca e sonnambulica “Wrote In Blood”, sfarfallii in bianco e nero di donne in veste da notte bianca che si aggirano lungo cunicoli illuminati da torce appese alle pareti di mattoni di cartapesta come in un film con Barbara Steele, della cui infantile reminescenza pure è intriso il delicato climax horror a pastelli (scuri) dell’ottima “Demons”. Chiude (in bellezza) fra bassi subacquei, riverberi metallici come di ancore e scandagli, l’ottima “Submarine” con il suo fluire asintotico dalle sfumature kraute.
Un album per tutte le sognanti creature dell’ora più buia, che sa brillare di luce propria e non solo per quella dell’hype. Bravi loro.
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