The Pains of Being Pure At Heart
The Pains of Being Pure At Heart
Avete presente i Black Tambourine? Beh, loro sono un gruppo noise-pop degli anni ’90 noto per la raccolta del loro materiale su Complete Recordings del 1999. Ciò che rende significativo il gruppo è la capacità di dare nuova vitalità all’indie pop dei Pastels (e più in generale della generazione immortalata sulla compilation C86-NME) offrendo così un contributo al revival indie degli anni seguenti, grazie anche all’aggiunta di una decisa scarica shoegaze e noise.
Ora però vi chiederete perché io stia parlando dei Black Tambourine in una recensione di un disco dei newyorkesi The Pains Of Being Pure At Heart…Semplice, perché sembra che i nostri vogliano, con il loro omonimo di quest’anno, rendere esplicito omaggio alla sopraccitata band, come dimostra non solo l’impressionante somiglianza sonora e quindi contenutistica, ma anche, a livello superficiale, la copertina dell’album che pare voler riproporre quella dei colleghi del ’99.
Il territorio lambito dunque è quello della canzone pop farcita di strati di chitarre rumorose, un jangle-pop colmo di feedback e riverberi. Non che la cosa risulti sgradevole, intendiamoci. Pezzi come l’introduttiva Contender riescono a rievocare il meglio degli anni ’80 (dai Primal Screams ai Jesus and Mary Chains per chiarirci) grazie ad una possente carica melodica, un certo dream spleenetico che traspare da ogni brano e l’immancabile duetto tra voce maschile e femminile. Ancora meglio la seguente Come Saturday, oppure This Love Is Fucking Right! meritevoli di un’ottima sessione ritmica divisa tra un bel basso pulsante e un batterista davvero scatenato, nonché di ormai dimenticati momenti in cui la chitarra si lancia in graziosi scampanellii jingle-jangle. Tra pezzi slanciati e veloci di chiara matrice indie (Young Adult Friction, Everything With You, Hey Paul) e altri più pop (Stay Alive, A Teenager In Love), il disco scorre senza intoppi, per un ascolto piacevole e grazioso.
Si tratta di umori (e rumori) adolescenziali amplificati ed elettrificati, di trasognatezza shoegaze riletta in chiave pop, senza espedienti e con pochi filtri. Il mio consiglio è dunque quello di prendere tutto ciò che c’è di buono nei The Pains Of Being Pureb At Heart e di godervelo con massimo abbandono.
Ma non prima di aver fatto visita ai Black Tambourine, mi raccomando…
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