R Recensione

6/10

The Papercuts

Can’t Go Back

È triste quando un disco non riesce a mantenere le sue promesse iniziali. Quando una partenza bruciante ti fa sbracciare entusiasta sugli spalti del tifo nella convinzione di aver trovato un campione per poi farti ritrovare sotto gli occhi pochi metri dopo un’atleta spompato e sonnecchiante. Epperò, malauguratamente, questo è proprio ciò che succede nella seconda prova sulla lunga distanza dei Papercuts.

Grosso modo la creatura personale di Jason Quever, cantautore proveniente dalla Bay Area di San Francisco che non si sforza più di tanto di nascondere le proprie origini musicali: psichedelia folk, quindi, essenzialmente, accenni di country qua e là, e un suono che guarda alla tradizione storica del luogo e la converte magicamente in indie pop, alla stregua di gruppi analoghi come Skygreen Leopards e Beach House: dei primi riprende la delicata rilettura della discografia Byrdsiana, dei secondi la propensione ad avvolgere tali influenze in una dimensione narcolettica e trasognata.

Gli anni’60 pop, psych e folk riproposti in chiave dream pop, quindi, questa volta con la benedizione di sua maestà Devendra Banhart, che fa qui da mecenate con la sua label personale Gnomosong.

L’iniziale Dear Employee, sorta di rilettura californiana del migliore Cohen, e la psichedelia folk morbida di John Brown fanno ben sperare. Il livello di entusiasmo resta ancora altino durante la ballata agrodolce di Summer Long. Quando il disco comincia ad avvitarsi in una pericolosa spirale di monotonia subentra lo spirito allegramente old time della sgangherata Take the 22th Exit, a metà strada tra Ray Davies e il Dylan più cialtrone, a smuovere un po’ le acque e a farti tirare un sospiro di sollievo.

Troppo presto: perchè da lì in poi il disco comincia lentamente, ma inesorabilmente a morire: si procede senza scossoni sulle strade assolate della California, un po’ intontiti dal caldo, placidi e sereni, mentre la palpebra si abbassa. Sempre di più. Niente di grave e niente di strano: canovaccio dream pop eseguito con garbo, non un vero calo di tono, semplicemente si ha l’impressione , più che di entrare nella terra dei sogni, di varcare il regno del grande sbadiglio.

Con qualche pezzo in meno o con una tracklist meglio congegnata potremmo parlare di un ottimo disco, ma alla luce dei fatti non si può fare a meno di riciclare il vecchio slogan usato per le reclame dei medicinali: da usare con cautela, può indurre in sonnolenza.

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