Wild Nothing
Golden Haze EP
Meno di venti minuti potrebbero anche essere sufficienti.
Usciti un attimo a prendere una cassetta di latte, rigorosamente in bicicletta, tornano i Wild Nothing, e con loro piccole dosi di dream-pop scolaretto. E' di nuovo l'adolescenza in profumo di berretti, bretelle e camicette eighties, infatti, il richiamo concettuale pronunciato a mezza bocca dal gruppetto americano. Come l'immagine evocata, così anche la musica dietro quell'immagine viene ripresa quasi fosse (e in effetti è) una naturale prosecuzione biologica della deliziosa creatura data alla luce con "Gemini"; un prolungamento antropomorfo quasi istintivo, vero, ma in buona parte deludente, che se da una parte concilia subito l'ascolto con i suoi modi familiari e accomodanti, rischia dall'altra di risultare pedante e spesso inconcludente.
Riparte quindi il walzer degli arrangiamenti all'acqua di rose e dei vocalizzi in sospensione zuccherina ("Golden Haze"), e quindi dei sintetizzatori in costante dissolvenza e dei ritmi picchiettati ("Quiet Hours"). Tolta la maschera sono sempre loro, i Wild Nothing, con il loro bagaglio pop di vecchi insegnamenti Slowdive e Radio Dept., nel bene, ma soprattutto nel male, in questo caso: e dire che ci sarebbe pure spazio e possibilità per almeno una paio di possibili perle lasciate a mo' di esche ammalianti, - la mente torna subito alla Mykonos di "Sun Giant" dei Fleet Foxes – ma scelgono di "riscaldare la minestrina", e c'è poco da fare, oltre che da ascoltare. Peccato.
Quello che infastidisce è in particolare il tempo delle ritmiche, insulse, prive del minimo apporto emotivo e con la costante sensazione che le bacchette lavorino "in levare" (si alzano) piuttosto che "in dare" (si abbassano), nonostante cerchi in alcuni punti di velocizzarsi e articolarsi sulle battute finali ("Take Me In"); e a poco servono i simmetrici giri in riverbero gorgogliante della chitarra e del basso se si limitano a seguire solo l'ombra degli estrosi ed elaborati "fratelli" che tanto avevano incantato in "Gemini" ("Your Rabbit Feet"). Capita anche d'imbattersi in un vero e proprio scarto da garage (visto che di studio non si può parlare), quasi una traccia-fantasma non voluta o inserita tanto per fare numero, il cui nome pare più eloquente di qualsiasi altra parola ("Asleep"). Quel poco che rimane è buonino, sicuramente il meglio che questo EP abbia da offire: arpeggi luccicanti della chitarra, strati sottili in (finto) crescendo della batteria, che per la prima volta, almeno, sembra integrarsi con gli altri strumenti, e apprezzabili dilatazioni di voce ("Vultures Like Lovers").
Meno di venti minuti potrebbero anche essere sufficienti, dicevamo. Ma non lo sono, e se volete un consiglio spassionato, spendetene il doppio per riprendere in mano quel capolavoro di "If Wishes Were Horses" dei Blueboy, che di certo ha molto più da raccontare.
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