Wild Nothing
Life of Pause
Troppo poco chiacchierato, Tatum. Lo notava, giustamente, Ben Homewood su NME, parlando di un artista stranamente anonimo, come schiacciato, in casa Captured Tracks, da presenze ben più ingombranti. Vero, e forse colpa di un secondo album colpevole di smorzare i toni del pur timidamente celebrato esordio Gemini. Sta di fatto che il tuttofare Jack Tatum si è rivelato negli anni una penna finissima, un dosato e gentile artigiano di composizioni dream pop dalla sensibilità rétro-nostalgica e (quindi) figlia del proprio tempo.
Nemmeno con il nuovo Life of Pause il musicista statunitense sembra essere riuscito a risalire la china della pubblica considerazione, nonostante i molti segni di una rinnovata carica vitale e creativa. Il processo, qui, è quello di una decisa cristallizzazione del suono inaugurato con Gemini e passato per la normalizzazione (o meglio, la presa di confidenza con lo studio di registrazione) di Nocturne. Il terzo capitolo, prodotto da Thom Monahan sfruttando ben tre location (Svezia, Los Angeles e Brooklyn), segna un netto passo avanti per Tatum, più che a suo agio nella gestione della materia sonora e quindi libero di giocare plasticamente con composizioni ricche e frastagliate, complesse ma squisitamente pop.
Aprono le danze le marimbe in loop di Reichpop (titolo quanto mai esplicito), eterizzato e circolare brano exotic/dream pop che affianca ad una salda sessione ritmica lievi e garbati accorgimenti armonici (gli interventi fugaci delle chitarre -pennellate dal puro apporto timbrico-, le striature ambientali sullo sfondo, il loop che continua a colorare il tutto), seguito da Lady Blue, rilettura pop ottantiana dai rimandi -per quanto derivati- chillwave (che dire, allora, della splendida Life of Pause?), e dalla sfumata e conturbante A Woman Wisdom, con i suoi synth slavati sullo sfondo e quella melodia indolente sostenuta dal saltellare delle tastiere.
Ogni brano vive di dinamiche proprie, dallo shoegaze di Japanese Alice alla ballata eterea e iper-stratificata (siamo dalle parti degli Egyptian Hip Hop) di Alien, passando per il motorik deciso della neo-psichedelica To Know You e per le melliflue armonie sessantiane di Adore. A sigillare tutto ci pensa Love Underneath My Thumb, ennesimo capogiro in technicolor fatto di arrangiamenti conturbanti (le chitarre in tape reverse, i jingle cristallini, i coretti, le tastierine liquefatte, i synth svolazzanti: tutto saldato a perfezione) e uneccezionale sensibilità melodica.
Sarà il caso di riprendere in mano il caso Wild Nothing: con il terzo lavoro Jack Tatum dimostra un potenziale finora non pienamente dispiegato, o almeno non con tanta sicurezza. Le cose da dire sono molte: ascoltiamo.
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