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R Recensione

7/10

Woman's Hour

Conversations

A ben quattro anni dal primo singolo debuttano finalmente su disco i Woman’s Hour, quartetto da Kendal ma di base a Londra, che dell’attuale scena pop britannica offre una specie di quintessenza levigata e glabra, ma per fortuna non cerebrale.

Della stessa scuola di Wild Beasts (quelli di “Smother”, in particolare) e del minimalismo The xx, Fiona Jane e compagni propongono ballate e bozzetti melodici sottoritmo estremamente curati nelle sonorità, con strati di tastiere, bassi rotondi, chitarre intente al dettaglio e alla micro-definizione, synth discreti e cori che scaldano la voce delicata della Jane.

Non c’è grande originalità, ma compensa una scrittura solida, già matura. I primi sette pezzi infilano un singolo dopo l’altro, senza pause, dal crescendo della title-track all’intensità da brividi nel cantare una storia finita di “Darkest Place” («Wherever I look you’re always there / I close my eyes and it’s even worse»), dalla sensualità sfatta e strascicata di “To the End” (Rhye e dintorni) all’elegia di “Our Love Has No Rhythm” (moviola di un pezzo r’n’b, ipnotica nelle continue scale melodiche di chitarra, cori e basso), fino agli Still Corners reloaded di “Her Ghost”.

Certe soluzioni in fase di produzione sono ancora acerbe (cfr. i finali che fanno prendere quota ai pezzi con la moltiplicazione dei tappeti di tastiera) e manca ancora un marchio di fabbrica riconoscibile, soprattutto in certi pezzi meno riusciti che rischiano l’anonimia o il giro armonico telefonato (“Reflections”, “Two Sides of You”, altri passaggi qua e là), ma con un po’ di esperienza in più, anche live, l’impressione è che il talento possa crescere in modo più personale. E intanto è il disco è uno di quelli che girano, quest’anno, più volentieri.

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