Woman's Hour
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A ben quattro anni dal primo singolo debuttano finalmente su disco i Womans Hour, quartetto da Kendal ma di base a Londra, che dellattuale scena pop britannica offre una specie di quintessenza levigata e glabra, ma per fortuna non cerebrale.
Della stessa scuola di Wild Beasts (quelli di Smother, in particolare) e del minimalismo The xx, Fiona Jane e compagni propongono ballate e bozzetti melodici sottoritmo estremamente curati nelle sonorità, con strati di tastiere, bassi rotondi, chitarre intente al dettaglio e alla micro-definizione, synth discreti e cori che scaldano la voce delicata della Jane.
Non cè grande originalità, ma compensa una scrittura solida, già matura. I primi sette pezzi infilano un singolo dopo laltro, senza pause, dal crescendo della title-track allintensità da brividi nel cantare una storia finita di Darkest Place («Wherever I look youre always there / I close my eyes and its even worse»), dalla sensualità sfatta e strascicata di To the End (Rhye e dintorni) allelegia di Our Love Has No Rhythm (moviola di un pezzo rnb, ipnotica nelle continue scale melodiche di chitarra, cori e basso), fino agli Still Corners reloaded di Her Ghost.
Certe soluzioni in fase di produzione sono ancora acerbe (cfr. i finali che fanno prendere quota ai pezzi con la moltiplicazione dei tappeti di tastiera) e manca ancora un marchio di fabbrica riconoscibile, soprattutto in certi pezzi meno riusciti che rischiano lanonimia o il giro armonico telefonato (Reflections, Two Sides of You, altri passaggi qua e là), ma con un po di esperienza in più, anche live, limpressione è che il talento possa crescere in modo più personale. E intanto è il disco è uno di quelli che girano, questanno, più volentieri.
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