Bat For Lashes
Two Suns
Natasha Khan menade tolkieniana. Freak pagana. Cantautrice fantasy. Selvaggia Kate Bush noir calata nell’elettronica. Adorata da Thom Yorke che l’ha voluta in tour con i Radiohead, sponsorizzata da Scott Walker che qui duetta nel retrò spettrale di “The Big Sleep”, dipinta sin dall’esordio (“Fur And Gold”, 2007) come la nuova Bjork. È moltissime cose, questa Bat For Lashes, e soprattutto due: la reginetta dell’electro-pop di umili origini (l’altro lato di Lily Allen, a cui fisicamente assai somiglia) e la ribelle radical chic che sa fin troppo bene il fatto suo. Due soli, insomma.
Questo concept basato sull’incompletezza dell’uno non poteva che cadere come l’album numero due. Del debutto, “Two Suns” prosegue le atmosfere fiabesche e l’attitudine musicale bacchica, pur raffreddandole con ritocchi elettronici da estetica anni ottanta che imbastardiscono non poco il lavoro. Ne esce un disco più sfaccettato, e non è un caso che la Khan scelga di proiettare sui testi un proprio alter ego, Pearl, calandola nell’intensità mondana della Grande Mela. Se si contrappone questa ambientazione patinata alla Brighton scura della Khan (la stessa del video di “What’s A Girl To Do”), si ha l’idea di un dualismo forte, riversato, oltre che nei suoni, anche nei temi.
Ed è un bene, perché proprio la dicotomia tra freddo e caldo, etereo e carnale, fantastico e tribale, moderno e antico, costituisce il motore del disco. Le percussioni ancestrali e neo-hippy già presenti in “Fur And Gold” qui riemergono carsicamente (“Two Planets”), ma intrecciate a screziature elettroniche più metalliche: “Glass” è il trionfo di questa unione, in un clima innervosito dal basso e stirato nel potente falsetto del ritornello, mentre “Sleep Alone” amalgama ripetitività ipnotica del beat (durissimo) e schegge di tastiere eighties. Sicché la Khan riesce dolce (“Moon And Moon”) e dark (“Pearl’s Dream”: bella) contemporaneamente, su sfondi blu-violacei costanti.
Il gioco a fare la nuova Bjork prosegue, ma con maggiore parsimonia (“Good Love”, tra cori e tastiera robotica), mentre le influenze si spostano su territori più sfuggenti (la trasparenza dei Fleetwood Mac? addirittura una più folkeggiante schiera di cantautrici femminili in “Siren Song” – Feist, Essie Jain?). A ben vedere la ragazza sfoggia un eclettismo quasi alla PJ Harvey, toccata da vicino nel gospel sporco di “Peace Of Mind”, e questa ambiziosa ubiquità la rende geniale e sacrilega assieme.
Certo, finché ci consegna gioiellini synth-pop come “Daniel” c’è poco da lamentarsi: fraseggi algidi alla Jean Michel Jarre (magari filtrati da quella “The Rip” dei Portishead che è già considerabile un classico) si intersecano con influenze di elettronica Morr, lasciando a metà un intermezzo esotico di violino da incidersi addosso. Da ascoltare in loop senza interruzione, malgrado incomprensibili rimandi a quel Karate Kid (Daniel sarebbe lui, come video e copertina del singolo documentano) che ci piace ricordare solo per un epico «metti la cera, togli la cera».
Bat For Lashes, crescendo, si sdoppia. Finché non si caricaturizza, a noi va benissimo.
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