Cut Copy
Zonoscope
Per farla semplice, si potrebbe parlare di “Zonoscope” come di un “three piece puzzle” (copyright by Jneiro Jarel), posto che tre sono i tasselli che compongono il disegno complessivo, ciascuno corrispondente ad una diversa tipologia di brano. Il primo (l’avreste mai detto?) rievocherebbe il matrimonio in pompa magna tra identità indie (una sorta di “indie-ntità”, se mi concedete il penoso gioco di parole) e l’abbraccio estatico di electro-pop, bassi disco, pulsioni house: combinazione che già fece di “In Ghost Colours” l’arcobaleno post-neworderiano a solcare i cieli del 2008, nuvoletta pargola da cui piovvero innocenza adolescenziale e grandine caramellata dai profumi ibizenchi. Gli altri due tasselli, segnati da un curioso destino, sarebbero invece gli elementi chimici responsabili di suddetta alchimia, qui misteriosamente scissi. E quindi pezzi puramente indie da un lato, tracce squisitamente dance dall’altro.
Questo, si diceva, per farla semplice. E lo ammetto, all’inizio avevo anch’io pensato di risolvere la faccenda in quattr’e quattr’otto, attenendomi alla linearità dell’enunciato di partenza. Ma spesso semplificare (o schematizzare, come in questo caso) equivale a perdere di vista una realtà assai più sfaccettata, le cui pieghe sono tutte da indagare e, se possibile, decifrare. E un messaggio, bello potente, stava lì sotto i nostri occhi: la copertina. Cosa c’è di più quartomondista di una New York immersa nella vegetazione tropicale, con tanto di cascata appena dietro l’Empire State Building? Nulla, ovviamente. Era forse questo il sogno bagnato di Jon Hassell? Probabile. Gente come Talking Heads, Lizzy Mercier Descloux e Arto Lindsay aveva già provato a plasmare stimoli analoghi in un contesto popular? Ciascuno a modo loro, sì. E i Cut Copy? I Cut Copy miscelano parte di queste suggestioni – con fare meno pretenzioso e più fun – agli ingredienti basilari del loro suono, optando per soluzioni sonore più dilatate, istintive, bizzarre.
Una scelta pienamente consapevole e consapevolmente azzardata, vale la pena notarlo. Del resto, potevano giocare a sfavore della band australiana sia la decisione di autoprodursi (in cabina di regia il leader Dan Whitford, laddove il precedente “In Ghost Colours” vedeva la supervisione di Sua Maestà Tim Goldsworthy), sia l’intenzione di voler incidere un disco “frutto di jam in studio, improvvisazioni aperte, traendo ispirazione tanto dai Fleetwood Mac di “Tusk” quanto dalla Grace Jones di “Slave To The Rhythm””. Fortunatamente, quelle che sulla carta parevano temibili incognite si sono rivelate, a conti fatti, mosse vincenti.
Ecco perché, pur non contraddicendo del tutto l’idea del “puzzle a tre pezzi”, “Zonoscope” merita assai più attenzione. E la merita fin dall’apertura: “Need You Now” è il mantra estatico che si attendeva, punteggiatura Pet Shop Boys su frasario house (gli sfarfallii di synth, le cowbell ciondolanti) con sottofondo di tastiere a ricalcare, con perverso sense of humour, i deserti degli aborigeni interiorizzati da Steve Roach; scultura di ghiaccio destinata a sciogliersi in un caloroso ritornello di tre accordi, coretti poppy, e gran finale di tamburi afro. Ancor più sconcertante la conclusiva “Sun God”, sorta di comunione mistico-tecnologica fra LCD Soundsystem e “My Life In The Bush Of Ghosts”, perlustrazione “acid” di crateri meteoritici come di sfere celesti, totem sonoro che nei suoi 16 minuti evoca ancestrali (futuristici) scenari pagani.
Questi i brani – i più danzerecci del lotto, assieme a una “Pharaohs & Pyramids” già “classica” – in cui la fascinazione per etnologie musicali di sorta viene portata all’estremo. Ma i germi della nuova “fissa” covano pure nel giro di marimba (sintetica?) posto a guida di “Blink And You’ll Miss A Revolution”, quando non nelle percussioni che catapultano “Corner Of The Sky” in un rituale voodoo denso di feedback e synth a mo’ di sirena d’allarme.
Tolti un paio di episodi piuttosto sottotono (“This Is All We’v e Got” e “Alisa”, entrambi “settati” su toni placidamente psych-pop), il resto del disco suona più familiare ma non meno intrigante. Anzi, è un piacere constatare come i musicisti di Melbourne riescano, pur indossando i loro abiti “color fantasma”, a dimostrarsi ispirati, catartici, privi di freni inibitori. Ne siano prova la fioritura indie-disco di “Take Me Over” (gli “ooooh” utilizzati come intercalare fra un verso e l’altro, veri e propri hook vocali di rara efficacia, sono divenuti cifra stilistica a tutti gli effetti), o il disarmante intreccio basso/chitarra sincopata dell’electro-soul “Hanging Onto Every Heartbeat”. Per non parlare di una spassosa “Where I’m Going”, che esordisce col fantasma di “I’m Waiting For The Man” per poi rigurgitare kitsch e ipotizzare dei Beach Boys “very stoned” che armonizzano su “Spirits In The Sky” (versione dei Doctor & The Medics, ovvio!).
Ma “Zonoscope”, ricordiamolo, può ancora diventare tutto o niente: forse (splendido) album di transizione, ma lo capiremo solo dopo l’uscita di un quarto disco “chiarificatore”; forse la “stranezza” in un catalogo che finora ha visto un capolavoro sostare accanto a una ciofeca; o più semplicemente (ma non troppo semplicemente) la fotografia di una band che intende procedere un passo alla volta, decisa ad evolversi ma intenzionata a non bruciare le tappe. Ben venga allora un’opera “trifronte” e lucidamente istintiva, se è il prezzo da pagare per mantenersi vivi e vitali.
Alla fine, l’ipotesi del “three piece puzzle” può essere ribaltata in favore del trio di Melbourne: qualche minima caduta di stile (tassello 1), tante disarmanti novità (tassello 2) e tante consolidate certezze (tassello 3). Un buon bilancio, dopo tutto.
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