Deerhunter
Halcyon Digest
Nella carriera dei Deerhunter, Microcastle pare essere una sorta di meteora. Il precedente Cryptograms si era limitato ad accennare, dilungandosi e procedendo a tentoni, quello che sarebbe stato il loro sound definitivo, tra rivisitazioni shoegaze, nervosismi wave e inquiete spianate ambient. Ancora nessuno si aspettava che dall'entourage Deerhunter sarebbero venute fuori creature come Lotus Plaza o Atlas Sound. Difficile, a maggior ragione, aspettarsi qualcosa come Microcastle/Weird Era Continued, il doppio che concentrò in una miscela esplosiva tutto l'immaginario di Bradford Cox e dei suoi compagni. Con il loro terzo lavoro in studio i cinque di Atlanta partorivano una sorta di straniante e splendido artefatto indie capace di travalicare il suo status minoritario per straripare di espressività e hype, innalzandosi a capolavoro pop tout-court; un'opera che ha saputo dar vita ad una forma straordinariamente rinfrescante di pop futurista, scintillante e schietto ma anche capace di ritrarsi in spire involutive ad accesso riservato. Complesso e appagante, degno di essere annoverato tra i migliori lavori della prima decade del nuovo millennio.
Passando dal nulla ad un “microcastello” (in aria?), ecco che i Deerhunter hanno preso comodamente posto tra i protagonisti del pop moderno. Superfluo notare, alla luce di cotanto splendore (passato), come Halcyon Digest trovi quindi un terreno non solo fertile, ma già prontamente arato.
Eppure la nuova fatica della band di Atlanta rischia di essere un po' come l'immagine di copertina: un nano che prega rivolto verso il cielo. Icona di dubbio gusto, certo, ma anche carica di metafore adattabili ad una band per un attimo immensa, poi di nuovo piccola così, ma con la fede e la speranza di tornare agli antichi fasti. E di preghiera non è così sbagliato parlare, visto che diversi pezzi paiono vere e proprie odi alle varie Agoraphobia, Never Stops e Nothing Ever Happened, “colpevoli” del loro innalzamento passato e delle conseguenti aspettative del pubblico (galeotto fu il libro e chi lo scrisse...).
Attenzione però: nonostante tutti i limiti di un'opera che trae linfa e respiro dal precedente colosso, questo nuovo lavoro presenta diversi elementi d'interesse, da non sottovalutare. Earthquake è forse il loro brano più sofisticato, almeno a livello di arrangiamento, produzione, controllo di dinamiche e "crescendo". Il loop ritmico che lo guida sembra punteggiato da zone cave e intercapedini, come una ramificazione di musique concrete e sospiri vocali intrecciati. Ai due lati dello spettro uditivo, il placido germogliare di chitarre acustiche e la voce filtrata di Cox, indisturbata fino a quando uno scroscio di riverberi e delay fittissimi, quasi puntillistici, interviene e avvolge la triste/epica cantilena.
Prassi simile quella di Helicopter, imperniata questa volta sulla forma canzone, che sfoggia un ricamo acustico preso su un registro acutissimo e aggiunge alla ricetta qualche vagito di tastiera giocattolo; in questo caso, il ritornello spalma su nastro un lieve manto shoegaze, tale da non incrinare l'equilibrio della materia. Il suono è curatissimo in entrambi i casi; gli strumenti sono disposti senza accavallarsi, bensì secondo coordinate spaziali ben precise. La sensazione è di "abbandono controllato", elevazione mistica "premeditata".
Addirittura maestoso il concerto percussivo di He Would Have Laughed, con le sei corde pizzicate in odor di minimalismo e il canto di Cox forse mai così "estroverso", tuonante ed epico. Sailing, avvolta in rumori d'ambiente, cerca di convertire in ballata i kammerspiel sublimi e amorfi di Microcastle (nello specifico la triade Cavary Scars/Green Jacket/Activa), suonando desolata come il Lou Reed di The Heroine (su The Blue Mask), con la quale peraltro condivide l'ambientazione marittima e la metafora della navigazione come percorso esistenziale (tempestoso quello di Lou, più sereno e speranzoso quello di Cox).
Che dire degli altri brani... Don't Cry è un'ulteriore, piacevolissima dimostrazione dell'amore di Cox per i girl groups, tanto che, ripulita dalla sporcizia indie e "laccata" a dovere, potrebbe passare per una hit delle Shirelles. Il resto si regge (maluccio) sulle medesime intuizioni di Microcastle, e non bastano qualche strumento inedito (il sax di Coronado, le cornamuse di Memory Boy) a redimere qualcosa che pare già di seconda mano. Come copia di Nothing Ever Happened, Desire Lines è piuttosto piatta. La palma di brano peggiore la vince però Basement Scene, addirittura indecente nel suo ortografico "insozzamento" di stilemi dei tardi '50s e inizio '60s.
Difficile quindi capire cosa brilli di luce propria e cosa invece rifletta i bagliori passati. Una cosa però è certa, i Deerhunter emettono ancora luce, seppur spesso fioca e pallida. Impossibile e soprattutto ingeneroso, quindi, dare per ferma la loro attività, sebbene risultino evidenti i passi indietro che distanziano Halcyon Digest dalla grandeur di un paio di anni fa. E anche qualora disgraziatamente si trattasse di un sole calante avremmo ancora tutte le condizioni per aspettarci un ottimo tramonto.
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