R Recensione

6/10

Hawksley Workman

Meat-Milk

Hawksley Workman, al secolo Ryan Corrigan, è un songwriter di origini canadesi, polistrumentista (chitarra, basso, batteria, tastiere e voce) e produttore, riesce ad alternare un rock vicino alle sonorità di Prince ad un pop elettrico dalle sfumature commerciali. Il suo approccio musicale ricorda quello di E, mente degli Eels, sia per alcune sonorità, con particolari alternanze di effetti elettrici a cantilene quasi low-fi, sia per l’approccio nei live, dove si presenta spesso, sfruttando la sua capacità di saper suonare molti strumenti, in un semplice duo con il tastierista Todd Lumley ("Mr. Lonely").

La sua prolificità artistica (quattordici album dal 1999 ad oggi, più molti Ep) si può spiegare soltanto guardando alla velocità con la quale compie la scrittura, la registrazione e la produzione, poco più di una settimana per la maggior parte dei suoi album: “non impiego più di un giorno per canzone, perciò per il tempo in cui la registrazione viene mixata, finita, completata, sono ancora in una luna di miele con il disco…”. Anche questo doppio album ha conosciuto questo destino: già dall’aspetto estetico, con due libretti e due copertine differenti, ci si rende conto di come non si tratti di un solo Lp composto da due dischi, ma di due creazioni differenti, che sembrano avere pochi rapporti l’una con l’altra, sia dal punto di vista della musica che dei testi, salvo il nome dell’artista. In America infatti sono usciti, in un primo momento, come due album distinti: il primo, “Meat”, in vendita nei negozi dal Gennaio del 2010, e il secondo, “Milk”, nel Gennaio 2010 in vendita soltanto su iTunes.

Meat” si apre con una ballata, “Song for Sarah Jane”, costruita su pianoforte e voce, tra i quali dei rumori di sottofondo danno l’impressione di trovarsi nello stesso studio di registrazione dove viene eseguita. Ma già dal secondo brano ci si accorge che la ballata iniziale non era che una romantica parentesi aperta tra chitarre elettriche e ritmi rock: “French girl in LA” ha degli accenni glam propri del migliore Prince che nella seguente “Choccolate mouth” convergono perfettamente con un ritmo pop stile Beatles, per esplodere nella splendida “Baby mosquito”, dove l’effetto della chitarra elettrica riproduce il pianto della ragazza raccontato nel testo, facendo l’occhiolino alla chitarra in lacrime di George Harrison. Il ritmo poi si fa più elettrico, la batteria è quasi campionata, la voce si avvicina a quei toni dell’R&B contemporaneo e commerciale, gli stessi testi sembrano abbandonarsi a una sorta di goliardia che sarà dominante nei testi di “Milk”.

Restano le chitarre elettriche, ma si lasciano sommergere dai ritmi rigidi e dai motivi scontati, a volte la batteria si esalta rompendo il ritmo meccanico del campionamento, ma è un assolo che scivola senza essere seguito, gli effetti si presentano saltuariamente, come quello della voce e della chitarra, eppure in questo modo si esaltano, danno una forza e un’originalità alla canzone che altrimenti non avrebbe: l’esempio più evidente è in “Depress my hangover sunday”, dove una voce carica di effetto arriva a gridare al disotto di un coro R&B, mentre la chitarra cerca l’accordo giusto graffiando le corde in uno slide. L’ultimo pezzo, “We’ll make time (even there ain’t no time)”, è una sintesi perfetta dello stile che Hawksley mette qui in mostra: si costruisce su un coro baritonale dalle influenze africane che si distende come un tappeto sotto la voce che recita senza respiro, sfiorando lo stile rap; poi esplode ancora la chitarra elettrica, sostituendosi al coro, e costringe la voce ad elevarsi di tono, a gridare quasi, per interromperla in un assolo rock che chiude il brano e l’intero album.

Fin dal primo brano di “Milk”, appare chiara la profonda differenza che passa tra questo e “Meat”: “Animal behaviour” ha il ritmo campionato della disco anni ’80 e una parte cantata che ricorda, anche per il testo, quelle collaborazioni tra artisti hip-hop e R&B (come quelle tra 50 Cent e Justin Timberlake), a tal punto da costringerci a pensare che Hawksley intenda in questo modo fargli il verso. Ma il disco continua più o meno su questa linea, fatta di testi lontani da qualsiasi tipo di romanticismo e di basi musicali totalmente campionate. Le chitarre elettriche sono sparite, le distorsioni sono sostituite da una struttura pop, con cori ed effetti elettronici, la stessa voce sembra uscire da un disco di Justin Timberlake. “Devastating” appare quasi soltanto come una parentesi di lirismo in mezzo a tutto questo: ancora una volta il pianoforte ad accompagnare una voce sincera e malinconica che si lascia sostenere dai piatti lievi di una batteria e le note impercettibilmente distorte di una chitarra elettrica. Ma subito dopo, con “We dance to yesterday” e “My snow angel“, ecco ritornare il ritmo campionato e i facili ritornelli da brani orecchiabili e commerciali nati per morire nel consumo.

Piccole sfumature testimoniano le buone capacità manifestate in “Meat”, come in “Robot heart”, dove la struttura musicale costruita su una chitarra elettrica si eleva in una bella esplosione di piatti a consegnare una delle poche emozioni che questo disco riesce a dare; anche dal punto di vista dei testi, Hawksley riesce a trasmettere delle particolari emozioni, ma spesso la musica troppo mainstream che le accompagna non permette all’ascoltatore di andare oltre di essa, come nel caso di “Some people” o della conclusiva, e più apprezzabile, “Wayside”.

Si tratta dunque complessivamente di un lavoro ambivalente, di fronte al quale appare difficile inquadrare perfettamente la fisionomia di questo artista. Dall’elettro-pop al glam rock, dalla disco all’hip-hop, passando per low-fi, R&B e wave: Hawksley riesce a produrre musica di ogni genere e a trovarvisi a proprio agio. Con questo doppio album sembra volerlo dimostrare. Di fronte ad un lavoro tanto poco compatto, è impossibile non riuscire a storcere il naso almeno una volta nell’ascoltare brani tanto distanti tra loro, tanto più nel passaggio da un disco come “Meat”, pieno di spunti originali, a uno come “Milk”, dove il sound sembra una costante reminescenza di qualcosa di piatto e già ascoltato. Eppure, attraverso un ascolto più attento, si scopre tutto il talento di questo artista, la sua capacità impressionante di farsi doppio, triplo, quadruplo (capacità dimostrata anche fisicamente attraverso le due copertine differenti, dove in una sembra avere il volto di un insolente Craig David e nell’altra quello di un disperato Daniel Johnston), muovendosi attraverso i generi musicali come un attore si muove in ruoli differenti, mascherando anche le inevitabili difficoltà attraverso un’audacia espressiva che forse è proprio il suo più grande pregio.

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