North Atlantic Oscillation
Grappling Hooks
La Kscope sa certamente selezionare con cura i suoi artisti, bisogna dargliene atto. Ogni disco da loro prodotto getta una nuova luce alla definizione di musica che negli anni hanno cercato di plasmare: ogni gruppo porta la sua esperienza, ma deve anche risultare, in qualche modo, coerente all’estetica della label. Un’estetica che ovviamente è tutta in divenire.
Con gli scozzesi North Atlantic Oscillation, l’apertura alare della Kscope diviene, se possibile, ancora più estesa incorporando una band veramente di sintesi fra una psichedelia di derivazione rock (anche se “sublimata”, nella chiave dei Flaming Lips, tanto per intenderci, con riferimento a dischi come Yoshimi Battles The Pink Robots o At War With Mystics o anche in alcune intuizioni dei Grandaddy) e una elettronica asservita ad un pop disturbato (Notwist e Animal Collective, gli innegabili riferimenti, ma anche Tarwter e i Radiohead in versione meno introversa). E fra questi due poli, tanta voglia di provare, di smontare e di ricostruire, senza badare troppo a separare i materiali a disposizione, ma tentando scrupolosamente di coniugare l’urgenza dell’estro con il progetto architettonico.
L’arte obliqua dei North Atlantic Oscillation si avvolge e si districa tra spinte sperimentali (vedi il sussultorio strumentale Audiplastic, imbrattato di colori alla Four Tet), allucinate visioni dal retrogusto BeachBoysiano (Hollywood Has Ended, con tanto di coretti), promesse pseudo-pop con le dita incrociate dietro la schiena (l’avvincente Cell Count), dichiarazioni di appartenenza rock geneticamente modificate (Alexanderplatz o Drawing Maps From Memory, sembrano una via mediana tra i dEUS e i Porcupine Tree, era Lightbulb Sun), illuminazioni post-rock in salsa “dreamy” (la lunga Ritual pare consonante con la musica dei Sigur Ros di Ágætis Byrjun). Grappling Hooks mostra già un ampio ventaglio di opzioni per le future escursioni della formazione scozzese.
Ma, a differenza di molti esordi, tutte queste opzioni vengono attraversate da un comune filo conduttore innestato nel tessuto compositivo stesso: la voglia di sperimentare divertendosi, manipolare senza filosofeggiarsi addosso, giocando al “Piccolo Alchimista”. Sam Healy (voce, chitarra, basso, tastiere, sax, percussioni), Ben Martin (batteria, percussioni, programming) e Bill Walsh (basso, voci), hanno già messo in piedi un armamentario degno di degno di tre-quattro dischi, che per ora si rivela attraverso una musica ultra-stratificata, piena di possibilità che, volendo stringere si condensa in un brano cardinale come Ceiling Poem, che dopo qualche ascolto assurge allo status di “classico”.
Ordinatamente caleidoscopici. Elegantemente sgargianti. Minuziosamente pazzoidi. Un gruppo dall’identità solida ma dalla personalità multipla.
"Business as unusual", mi verrebbe da dire.
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