Barzin
Notes To An Absent Lover
È un risveglio ciò che apre il terzo album del cantautore canadese Barzin: un risveglio in una casa estranea.
Con una batteria accarezzata ci accompagna dentro la stanza, quasi sentissimo i passi incedere sul pavimento e spalancassimo gli occhi nella luce del mattino, un lento scoprire.
“Nobody told me forgetting could be so hard” ci sussurra, non resta altro allora che procedere in un cammino che trova la sua direzione non nel dimenticare, bensì nel ricordare, nel rendere presente un’assenza per esorcizzarla: è questo il fil rouge di Notes To An Absent Lover, così come rossi sono i capelli della “auburn girl” che Barzin rincorre e distanzia, richiamata anche in copertina.
Lasciati da parte riverberi, elettronica e sperimentazioni del precedente album My Life In Rooms, sceglie di dare corpo e forma ad un’aria che ha il sapore dell’abbandono e lo fa con le esili note di pianoforte di “Worlds Tangled In Blue” in cui tremano chitarra e voce.
L’atmosfera si incupisce con l’avanzare, la steel guitar rende suono l’espandersi nel vuoto, come in “Soft Summer Girls” e “When It Falls Apart”, dilatando spazi che richiamano da vicino i Canyon di “The Long Weekend”; più sognante e sottomessa invece “Lost”, ove il vibrafono trasforma la rabbia arresa in una sorta di soave ninna nanna folk.
Con “Stayed Too Long In This Place” arriva la seconda voce di Melissa McClelland ad invocare il ritorno e la bugia beffarda: “So won’t yuo come to me now… so come gypsy girl bring me that lie that will make it okay”, tanto che verrebbe da pensare ai noti unisono Rice-Hanningan, ma in questo caso le corde femminili non s’impongono, piuttosto giocano la parte di lieve carezza e sostegno mai esagerato.
L’Lp volge al termine e Barzin sembra aver espiato colpe nascoste, la chiarezza diventa quattro quarti e voce più decisa in “Look What Love Has Turned Us Into” per ritornare al mood dell'incipit, il violoncello e il vibrafono in un tappeto rarefatto e malinconico ci svelano un nome: Susan.
Scopriamo che le pareti di quella stanza iniziale avevano i colori della consapevolezza, la stessa con cui Barzin decide di comporre, insieme a Tony Dekker dei Great Lake Swimmers, un album senza troppe impennate, fosco e vulnerabile, con un songwritng lucido e semplice, ma non per questo banale; il rischio è però l’avvolgersi a spirale del suono ed il ripiegarsi psicologico su se stessi.
Il cantautore canadese batte il terreno dello slowcore all’incrocio tra una Hope Sandoval al maschile e l’ultimo Sparklehorse di “Dreamt For Light Years In The Belly Of A Mountain”, gli manca tuttavia quella suadenza tipicamente femminile ed una certa caratterizzazione.
La monotonia è sempre dietro l’angolo pronta a far capolino, tuttavia è tenuta a bada dall’umiltà con cui questo musicista decide di stendere note che sembrano interni di Hopper, immobili e nello stesso tempo affascinanti, ottimamente riassunti in “Queen Jane”.
Per i due album precedenti la stampa aveva chiamato in causa Nick Drake, il cammino sembra lungo, ma speriamo che a Barzin restino più di cinque foglie per fare sbocciare ciò al momento sembra esser ancora un po’ acerbo…eppure tremendamente sincero.
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