Big Star
Third
Morte e immortalità
2016 annus horribilis, quante volte labbiamo detto, quante volte labbiamo letto, negli ultimi mesi. Bowie, Prince, Emerson, Cohen, Michael e qualcuno che dimentico. Ecco questa è la storia di una morte dimenticata, una delle tante che ogni anno occupano le meste due righe nella fossa comune delle news delle riviste musicali. Con chi prendersela quando tutto si riduce ad un necrologio in fondo al giornale, chi poteva rimanere colpito, giusto allinizio di questo decennio, dalla perdita di uno dei tanti dinosauri che il rock aveva partorito e condannato allarcheologia nellarco, abbondiamo, di un lustro? Non cera ragione, anzi possibilità, secondo la quale la gente comune, quella che va a lasciare i fiori e i bigliettini con su scritto Grazie di tutto dietro i cancelli, avesse dovuto o potuto scomodarsi dal divano. Del resto nessun fan di Jeff Buckley conosce gli autori delle sue cover. La band di questo signore era stata una delle tante meteore nel cosmo pop dei primi anni 70. Due album, e un terzo uscito con 4 anni di ritardo nell'indifferenza generale. Poi la classica carriera solista che passa inosservata, il salto dallaltra parte del vetro (coi Cramps, su tutti), fino alla tipica reunion-nostalgia-ultima spiaggia, nel quale il nostro era impegnato quando unancor più tipico infarto di mezza età lo ha spedito allaltro mondo. Fine della storia.
Eppure il racconto non può esaurirsi qui. In chi serba ancora memoria di lui si insinua il forte sospetto che Alex Chilton sia stato qualcuno, e non sappiamo bene perché, ma abbiamo la sensazione che abbia lasciato qualcosa di più che un vinile sbiadito nella discoteca di qualche giovane collezionista sessantenne, qualcosa di più pesante, qualcosa ancora capace di parlare fosse solo nella testa di noi pochi che lo hanno pianto come fosse stato un gigante, come Bowie, come Cohen. E quando dico pesante non mi riferisco alleredità musicale, pure sostanziosa e certificata, in tempi non sospetti, da gente come REM, Primal Scream, Replacement e via dicendo. E qualcosa che ha a che fare coi sentimenti. E benchè voglia evitarlo, con Alex Chilton essere sentimentali è necessario, per non ridurlo ad artista incompiuto che è diventato un mito dellunderground. Lo ricorderemo quindi come lartista capace di esporre i suoi nervi scoperti con grazia e discrezione, senza pedanti autobiografismi, come lartista che ha parlato di sè raccontando unepoca, raccogliendone con pazienza i suoni, e attraverso i suoni restituendone gli umori, quegli umori con cui, periodicamente, ci pare di rientrare in contatto. Così i miei due cent, umili e superflui, alla causa della sua immortalità.
Chiedimi chi erano i Big Star
E parliamo allora di quel famoso terzo disco del 1974, che le solite beghe della discografia unite agli immancabili sfortunati eventi hanno voluto sugli scaffali con quattro anni di ritardo, nel 1978 quindi, in piena stagione new-wave. Come dire, un disco dimenticato ancor prima di essere pubblicato. Nel mentre invece distribuito "Radio City", un lavoro che si rivelerà a posteriori seminale, tracciando anzitempo le coordinate del power-pop anni 80 con ritornelli jingle-jangle, spumeggianti distorsioni e un bella batteria cicciona. Tra i credits Alex Chilton e Chris Bell. Chris Bell a.k.a. l'anima scanzonata ed esuberante del progetto, dove Alex Chilton era il riflessivo, lo scontroso, diciamolo pure, il malinconico. Ma il gioco di questi due piccoli Lennon e McCartney dura poco: se i Fab4 reggono 8 anni, i nostri non arrivano a 4. Bell molla il gruppo quell'anno stesso e, ironia della sorte, morirà in un incidente proprio nel 1978, anno di uscita di questo lavoro, ancora a nome Big Star ma di fatto un prodotto del solo Alex Chilton. Unepilogo triste che, idealmente, era già immortalato in questi solchi. Dal canto suo Chilton sembra infatti non reagire attivamente allabbandono del collega, anzi, fa di questo lutto la cassa di risonanza della sua narrazione. Azzardo: quel vuoto era proprio ciò che gli serviva. Le nostre aspettative circa un possibile esercizio di riempimento vengono così disattese: il vuoto diventa il centro del discorso, viene amplificato, rivestito, ne viene enfatizzato il significato.
Può darsi fosse sempre esistito, ma nello sferragliante "Radio City" non aveva trovato posto. Il nuovo suono di cui Chilton si servirà per rappresentarlo, pur accuratamente stratificato e timbricamente ricercato, risulterà insolitamente esile e scarno per un disco a nome Big Star. E il suono dellagonia della grande stella. Questa sensazione di fragilità e di mancanza darà a "Third", così si chiama didascalicamente lalbum, quel senso di profondità dolente che mancava al solido predecessore. In ogni brano del disco, anche nel più apparentemente scanzonato, possiamo scorgere una cellula turbativa, un senso di smarrimento, quando non di perdita, o di resa. Una rassegnazione composta ma disperata, colorata a tinte pastello, a volte persino mascherata; va tutto bene, o forse non va più bene niente. Lartista sembra riflettersi nella sua opera, a sua volta riflesso dellarrendevole nostalgia di cui è intrisa la sua contemporaneità.
Il Requiem delle anime perse
Non si dica infatti che "Third" è un album esistenzialista. O meglio, a suo modo lo è, anche, ma non del genere di esistenzialismo io, la mia chitarra e tu che mi ascolti. Come accennato, cè nel lavoro di Chilton un carattere di ricerca enciclopedica, che tuttavia non esaurisce il suo senso in una sterile parata di stili ed influenze, ma piuttosto nelle sintonie tra il mondo interiore e luniverso di storie artistiche che con esso condividono una condizione emotiva, sociale, psicologica. Fatalmente, anche se non volutamente, "Third" è lopera dei primi che la vita ha voluto terzi, un affresco corale dedicato a quella fetta di generazione che, nel 1974, sentiva di non farcela, o di non avercela fatta, che era sopraffatta dai cambiamenti epocali, quando non tormentata da angustie personali, un requiem per le anime perse, di cui Chilton si sente parte e di cui si fa interprete. Ed è attraverso un gioco minuzioso di citazionismo, introiezione e personalizzazione, che lartista compone il suo capolavoro, occultando tra le righe di ogni brano un pezzetto di dolore altrui.
Basta ascoltare il glam-rock di Kizza Me per riconoscere il riflesso dei lustrini di re Marc Bolan, spodestato dalla furia free-jazz dell "Aladdin Sane" David Bowie alla cui ombra sarà costretto a soccombere. La cavalcata in odore Rolling Stones "You Can't Have Me" è similmente scossa dagli spasmi isterici di un sassofono, come a rievocare le turbe pericolose che condussero Brian Jones allautodistruzione. Ancora, una "Jesus Christ" di byrdsiana memoria sembra raccontare laffanno di un David Crosby allepoca allo sbando. E così via. C'è sempre qualcosa di rovente che cova sotto queste croste soft-pop, un ribbollire angoscioso che prende forma attraverso frammenti di una psichedelia morta e già cristallizzata nella dimensione del ricordo. Nessun revivalismo quindi nella cover di "Femme Fatale" dei Velvet Underground, piuttosto la rievocazione della triste storia della sua interprete Nico. Similmente, l'innocuo motivetto natalizio di "Stroke It Noel" diventa commovente quando si impreziosisce di raffinate orchestrazioni baroque alla Van Dyke Parks che richiamano alla memoria tutta la bellezza e la frustrazione contenuta nei capolavori di Brian Wilson. E così, per contrasto, il torpore straniante e rotto dai silenzi di "Big Black Car" non può non suggerire che limmagine di un Syd Barrett dalla vita già consumata. Una parata di terzi che sembra infinita, cui prende parte anche la malinconia stilizzata di Ray Davies ("Blue Moon"), l'indolenza soul di Otis Redding ("O Dana"), lo spiritualismo in salsa gospel di George Harrison ("Thank You Friends").
Esistono pure, in questo racconto, momenti che definiremmo più espliciti, laddove ciò che era sensazione viene a galla con semplicità estatica e potente: Nightime così adagiata su un tappeto cangiante di chitarre effettate (unorchestrazione che oggi chiameremmo post-rock) ci offre con nudità disarmante quel sereno sgomento che prima ci era dato solo di intuire, quel sangue sulle tracce che Bob Dylan stava spargendo proprio in quel periodo. Il sublime è raggiunto però in Kanga Roo, soul acustico sospeso su trame ondeggianti di archi, crepitii elettrici e malfermi battiti di batteria. Quella voce che dolcemente si impenna verso il cielo avrà rievocato, ad un Jeff Buckley intento a farla rispettosamente sua, la potenza espressiva del suo talentuoso papà. Lo spleen pianistico di Holocaust si proietta addirittura oltre ogni citazione storica: avvolto dagli spettri delle steel guitar e dei contrabbassi, ci pare di intravedere la sagoma Tom Yorke o di chissà quale altro artista del presente o del futuro. Ma forse è solo suggestione. Sarà lombra di Alex Chilton che continua ad allungarsi nella musica e oltre, invisibile eppure tremendamente percettibile nella vulnerabilità del genere umano. L'ombra di quellartista qualunque che oggi ci è piaciuto ricordare così.
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