Colapesce
Un Meraviglioso Declino
Il mese di maggio è uno dei miei preferiti: si inizia a pensare al mare, si chiude nell’armadio il cappotto pesante, la sera c’è il profumo umido del fieno – per lo meno in certe province – e poi tutti quei fiori non possono non metterti di buonumore! Era maggio ed era sera quando, quasi per caso, decisi di procurarmi il primo EP di un certo Lorenzo Urciullo, in arte Colapesce, giovane autore siciliano, già membro degli Albanopower. Il primo brano che ascoltai fu Fiori di lana. Non era il primo in scaletta, ma lo scelsi perché mi piaceva il titolo. Insomma, sembrava una cosa delicata e mi faceva pensare a Mimì che in una mansarda del quartiere latino, con quadrati di stoffa, ricama dei fiori. La “cosa” effettivamente era più che delicata e, a dire il vero, lo era tutto l’EP. Ecco, è così che ci siamo conosciuti io e Colapesce, una sera di maggio di due anni fa.
Il mese di febbraio, invece, è quello che più odio: ti svegli la mattina e piove e il cielo è grigio e ti pizzica perennemente la gola e non ci sono nemmeno più le lucine che ti hanno fatto compagnia durante le feste natalizie. Febbraio è il mese più breve dell’anno, ma è quello che dura di più: marzo non arriva mai, e quando finalmente fa capolino, ti sembra sia sempre febbraio perché nulla è cambiato. Anche il mese di febbraio, però, ha i suoi lati positivi. Uno di questi potrebbe essere l’ascolto del nuovo – e primo sulla lunga distanza – album di Colapesce, Un meraviglioso declino, pubblicato dalla piccola e curata 42 Records. Un meraviglioso declino, dunque, ovvero tredici brani - uno più ispirato dell’altro in quanto a talento compositivo, cura degli arrangiamenti e ricercatezza dei testi - che oscillano costantemente tra folk a stelle e strisce (dal classico Neil Young, agli odierni Fleet Foxes e Bon Iver) e tradizione cantautorale italiana (da Tenco a Paoli, passando per Battisti).
Si parte con Restiamo in casa ed è già magia: un sottilissimo e delicatissimo arpeggio di chitarra classica, a cui poco dopo si aggiunge una voce - che ricorda un po’ quella svogliata e sfocata di Nick Talbot dei Gravenhurst e si rivelerà un punto di forza dell’intero album - che recita Restiamo in casa, l’amore è anche fatto di niente. Passa ancora qualche secondo, ed entra in scena un pianoforte che disegna una melodia, tanto tenue e semplice, quanto ricercata e decisa, ad anticipare un ritornello che esplode di intensità. Di qui alla conclusiva Bogotà - dall’incedere sinistro e forte di un testo che, ritornando malinconicamente al rapporto adolescenziale di due fratelli, tra il narrativo e l’impressionistico (procedendo un po’ per immagini come il primo, oscuro De Gregori), palesa l’attenzione di Urciullo nei confronti di liriche che evidenziano la ricchezza musicale e lo spessore emozionale della lingua italiana -, una serie di brani che passano dalla spensieratezza luccicante di Satellite, che si candida già, in quanto ad appeal radiofonico, a canzone italiana dell’estate “indipendente”, ai rallentamenti narcolettici, intessuti di blanda psichedelia dream di Oasi che, con quel girotondo di organo e il lento pulsare della base, sembra uscita direttamente dalla penna nebulosa del duo di Baltimora, Legrand/Scally, o da quella degli Yo la Tengo più intimisti. Così, senza essersi ancora ripresi dall’incanto, parte il timido indiepop di Le foglie appese (altro vertice dell’album e brano più vicino alle sonorità linearmente Pop/Folk dell’Ep di esordio), sostenuto da un ritornello che sembra già un piccolo classico di scrittura cantautorale, in quanto a garbo e perfezione melodica.
La distruzione di un amore, che omaggia e capovolge La costruzione di un amore di Ivano Fossati, immerge l’album in un’atmosfera più cupa: costruita tutta su un suono desolato di chitarra classica e su una discreta sezione di archi che accresce l’afflato emozionale del brano, mostra, ancora una volta, il talento lirico e la propensione poetica di Urciullo che racconta di un amore solo sfiorato attraverso una serie di incisive similitudini. Ci pensa S’illumina (primo singolo estratto dall’album, accompagnato da un memorabile videoclip), invece, a reimmergere l’album in quelle atmosfere agrodolci di individualismo collettivo e di (stra)ordinaria quotidianità che costituiscono, a grandi linee, perché non sono certo le sfumature tonali a mancare nella tavolozza di Colapesce, quella che è un po’ cifra stilistica dell’album.
Prodotto e mixato da Giacomo Fiorenza, già al lavoro con Paolo Benvegnù, Marco Parente, Moltheni e gli Offlaga Disco Pax, solo per citarne alcuni, Un meraviglioso declino è uno scrigno di intuizioni musicali mai scontate che richiedono diversi ascolti per essere pienamente apprezzate e mostrano il talento di un giovane autore che, pur affiancato da diversi ospiti (tra gli altri, Alessandro Raina degli Amor Fou al canto nell’invettiva barocca de I Barbari e Sara Mazi – ex cantante degli Scisma – che in Sottotitoli accompagna al canto Urciullo, infondendo lievi dosi di grazia femminile alla fluidità elegiaca del brano), mostra già una notevole personalità in questo suo fondere mirabilmente poetica delle piccole cose, impegno emozionale, originalità melodica, attenzione per i dettagli e raffinatezza di gusto. Terminato l’ascolto di Un meraviglioso declino, viene quasi da chiedersi se davvero un declino possa apparire meraviglioso. Sì, sembra risponderci Lorenzo Urciullo, se il declino è quello dei proclami generazionali, dei sensazionalismi e del pressappochismo dilagante.
Fabio de Min, Tommaso Cerasuolo, Giuseppe Peveri e tutti gli altri sono avvisati: il pop indipendente italiano ha trovato un altro, pregevole rappresentante. Noi, invece, un nuovo amico da ascoltare in silenzio nelle nostre camerette, a febbraio quando fuori fa troppo freddo per uscire o a maggio quando, chissà mai perché, restiamo in casa rimpiangendo il freddo di febbraio.
Tweet