Sufjan Stevens
Invites you to: Come on Feel the Illinoise
La domanda è: ma chi me lo ha fatto fare? Non me lo ha chiesto nessuno! E se anche qualcuno lo avesse fatto, avrei risposto: “no grazie, non ho tempo, devo portare la macchina dal meccanico, devo fare il bagno al cane, devo piantare i tulipani in giardino … sarà per un'altra volta, magari con qualcosa di meno impegnativo, che so, la discografia completa di Sun Ra, la trascrizione per chitarra classica di “Music for Airports” di Brian Eno …”
Sufjan Stevens, 33 anni da Detroit, Michigan, è personaggio a dir poco complicato. Esce dall’anonimato nel 2003, quando, dopo aver collaborato con alcune band (Marzuki, Danielson Famile) e dopo due dischi in proprio passati quasi inosservati (“A sun came” del 2000 ed “Enjoy your rabbit” del 2001) ne pubblica uno dedicato al suo Stato natale: “Greetings from Michigan”.
Da quel momento il menestrello, nel frattempo trasferitosi a New York, ha due soli obiettivi: il primo è scrivere la canzone pop perfetta. Tutto qui? E che ci vuole?
Il secondo obiettivo è quello di pubblicare una serie di album, precisamente uno per ogni Stato Americano. No, aspetta un attimo: ma gli Stati Americani non sono 50?
Nel 2005, dunque, il pazzo di Detroit decide di raccontarci la Storia dell’Illinoise: non la Storia che abbiamo imparato a scuola, fatta di date, di re e regine… Sufjan racconta i dettagli, le piccole storie, i personaggi, le curiosità. L’ascolto del disco, che di fatto è un concept-album, è come un viaggio attraverso l’Illinoise, nel quale noi siamo i turisti e lui la guida.
La nostra guida inizia raccontandoci di quella volta in cui, nel 2000, cinque poliziotti dislocati in punti diversi nella zona di Highland, Illinoise, avvistarono un ufo. Per farlo si siede al pianoforte e inventa una melodia dove le note si rincorrono all’infinito sotto la sua voce sussurrata (“Concerning the UFO Sighting Near Highland, Illinois”). Successivamente entra in gioco la sua big-band al completo: “Come On! Feel the Illinoise!” ha l’incedere di una marcia suonata dalla migliore banda di paese del mondo: archi, fiati, percussioni e cori femminili si intrecciano e si alternano in una struttura ritmica perfetta.
Ci sono anche brutti ricordi, nella Storia dell’ Illinoise: la band scompare, Sufjan imbraccia una chitarra acustica e racconta la Storia di quell’uomo che organizzava feste per bambini vestito da clown, ma nascondeva sotto il pavimento di casa i cadaveri di ventisette ragazzi che “erano solo ragazzi / con le loro auto / i lavori estivi / mio Dio / sei uno di loro?” (“John Wayne Gacy, Jr.”, se non è questa la canzone perfetta …)
Mestamente la band rientra per un racconto corale, guidato dal banjo e da un quartetto d’archi, dedicato, fra gli altri, ad Harold Washington, primo sindaco nero di Chicago (“Jacksonville”). Una breve pausa per banjo e quattro voci (“Decatur, or, Round of Applause for Your Step Mother”) e poi arriva la capitale: “Chicago” è uno di quei pezzi che vorresti non finisse mai, perché fa battere le mani, perché spazza via i pensieri, perché in fondo la vita è bella, perchè a Chicago “all things go / all things go”. Eccola, la canzone pop perfetta.
Dopo il delirio collettivo di “Chicago”, la band scompare ancora, restano una chitarra acustica, il banjo e le voci di Sufjan Stevens e Shara Worden (oggi nota come My Brightest Diamond) a celebrare la festa del primo di marzo, quando “ti hanno trovato un cancro alle ossa / e tuo padre pianse al telefono / e guidò la sua macchina fino all’arsenale marittimo / solo per dimostrare che era dispiaciuto” (“Casmir Pulaski Day”).
“The Man of Metropolis Steals Our Hearts” è quasi un pezzo rock, appare una chitarra elettrica, un ritmo “quadrato” fa da contraltare alle voci angeliche del coro. Si celebra la figura di Superman, personaggio che appariva nella prima copertina del disco, poi modificata in seguito all’azione legale minacciata dalla Dc Comics, proprietaria del personaggio dei fumetti.
La band stacca la spina per una piccola pausa. “The Predatory Wasp of the Palisades Is out to Get Us!” (una ballata folk ricca e bucolica, come un’ Elliott Smith improvvisamente colto da mania di grandezza) fa da introduzione per un pezzo straordinario, interamente giocato su un giro di basso funky, un pianoforte ritmico, il solito quartetto d’archi guidato da Marla Hansen, e un coro femminile che scandisce “I-L-L-I-N-O-I-S” come farebbe un gruppo di cheerleaders ( “They Are Night Zombies!! They Are Neighbors!! They Have Come back from the Dead!! Ahhhh”).
La chiusura è rappresentata da una maestosa ballata per pianoforte e (molte) voci (“The seer’s tower”), da una variazione sul tema “Come On! Feel the Illinoise”, tutta fiati e controtempo (“The Tallest Man, the Broadest Shoulders” cita, tra gli altri, i Chicago Bulls e Benny Goodman) e da due brani strumentali che ricordano il periodo di “Enjoy your rabbit" ("Riffs and Variations on a Single Note for Jelly Roll, Earl Hines, Louis Armstrong, Baby Dodds, and the King of Swing, to Name a Few" e “Out of Egypt, into the Great Laugh of Mankind, and I Shake the Dirt from My Sandals as I Run”).
Non pago di tanta sostanza, il nostro ha pubblicato del 2006 un raccolta di outtakes ed extra di “Illinoise” intitolato “The Avalanche”. L’ascolto di entrambi gli album richiede quasi tre ore, un'esperienza uditiva straniante quanto divertente. C’è solo un piccolo problema: con questo ritmo (uno ogni due anni) Sufjan Stevens avrà completato la sua enciclopedia degli Stati nell’anno 2103. Lui ce la farà, ma lui è Superman. Noi, se proprio dobbiamo scegliere, speriamo di perderci solo il Delaware, il New Hampshire e, che so, il Vermont.
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