The Decemberists
I'll Be Your Girl
Ingenerosi e maligni, sempre gli stessi, hanno già trovato il modo di definirla variamente: crisi di mezzetà, sbornia post adolescenziale, rincoglionimento senile. Tutto questo pensate un po solo per colpa di Severed: un brano, nemmeno lontanamente così copernicano, che ha lardire di convertire il consueto bordone dorgano di Jenny Conlee in un gioco synth-pop dei quattro cantoni, caricando al contempo di accenti politici lafflato fiabesco connaturato nellontologia narrativa di Colin Meloy. I Decemberists alla scoperta dei sintetizzatori: ma quando mai? Ma che orrore! Chiudeteli in gabbia e gettate la chiave, per favore! Speaking of the devil, visto e considerato che si tira in ballo la memoria storica tanto più questa diventa labile e in definitiva inaffidabile, qualcosa balugina allistante: non erano forse le stesse identiche obiezioni mosse in occasione del concept prog The Hazards Of Love? Non abbiamo sentito i medesimi strali accompagnare il ritorno alla minimale sobrietà folkish di The King Is Dead e lesaustività antologica del successivo What A Terrible World, What A Beautiful World? Sta a vedere che è tutta una farsa, lennesima.
Ingenerosi e maligni, sempre gli stessi, i pontificatori senza tempo da perdere, continuano a dimenticare (a far finta di dimenticare?) che la discografia dei Decemberists è un innodico monumento alla digressione coerente. Ovvero: ogni cambiamento di vestito è, in verità, lesito finale e temporalmente delimitato di alcune tendenze già tratteggiate in lavori precedenti. Così, se di svolta prog si può parlare solamente in relazione a (e come approdo di) lussureggianti ambizioni narrative covate sin dal primissimo Castaway And Cutouts (California One / Youth And Beauty Brigade, per dire, è contenuta in quella tracklist), la nuova fase synth oriented che poi tale, come vedremo, non è muove da alcune propaggini di dieci e passa anni fa (The Perfect Crime di The Crane Wife, ad esempio). Certo, lottavo Ill Be Your Girl (prodotto dal tuttofare John Congleton) persegue lobiettivo con più tenacia, circoscrivendolo con maggiore profondità: ma pensare, per questo, di avere di fronte una band completamente nuova è illusione destinata a crollare da subito.
Interessante, anche se non originale, è la contrapposizione che il neofita potrebbe imbastire fra questo Ill Be Your Girl e The Queen Of Hearts, il recente esordio degli Offa Rex (di fatto, una riuscita collaborazione con lelegante voce di Olivia Chaney), alla (ri)scoperta degli standard del folk anglosassone. Interessante, dicevamo, perché lapparente abisso formale che dovrebbe separare le due produzioni si riduce in verità ad uno stretto margine di scelta soggettiva, se non trascurabile almeno non ingombrante. Lessenza delliniziale, accorata torch song Once In My Life (che, in coda, incorpora elementi di Barnaby, Hardly Working degli Yo La Tengo), se si guarda oltre la soffice coltre di synth vintage che donano al brano una malinconica profondità à la Berlin, non diverge sostanzialmente da simili episodi del canzoniere di Meloy: lo schema melodico della successiva Cutting Stone, addirittura, va a toccare le corde della tradizione aurale britannica (dalla prospettiva di un curioso allure new romantic), per tacere poi della toccante ballata elettrica Tripping Along (con certi riverberi chitarristici che sembrano richiamare direttamente in causa i Dire Straits).
La contaminazione, nel merito, finisce qui. A seguire, anzi, con unoperazione di incerta cesura, scorre una rassegna di leit motif stilistici minoritari cari alla band: dalla sciarada glam-westernata a più voci di Your Ghost (cè qualcosa degli Sparks di Kimono My House) allesile e dimenticabile canzoncina politica dellera Trump (Everything Is Awful), dallAOR-southern con piano saltabeccante di Suckers Prayer (forse il testo migliore del disco) ad una sarcastica We All Die Young che sembra fare il verso a certo indie pop corale for dummies dei primi Duemila (Im From Barcelona e compagnia danzante). La chiusura è infine affidata ad un Giano bifronte che, nella sua schizofrenia, svela moltissimo del disco. Rusalka, Rusalka / Wild Rushes, ennesima storia di seduzioni fatali e annegamenti, parte in sordina, in un formato di vibrante elegia appena sporcato da manipolazioni sintetiche: il cambio di passo, fulmineo, è affidato ad un jethrotulliano arpeggio prog-folk (The Landlords Daughter?), introduzione ad una cornucopia strumentale da commedia dellarte (vi si sentono anche il violino di Gaelynn Lea e larpa di Mikaela Davis). Per converso la title track, un dialogo a due voci che inscena un atipico rovesciamento dei ruoli di genere, è tra gli episodi più intimi e minimali mai scritti dai Decemberists: una semplice e classicissima ballata 50s rnr, ma scritta e interpretata con gusto e perizia.
È questo, forse, il disco meno facilmente inquadrabile di tutta la carriera dei menestrelli di Portland, Oregon. Sbandierato come opera di rottura, è in realtà il solito album dei Decemberists: vorrebbe dirigersi in nuove direzioni, ma non lo fa con la giusta convinzione; vorrebbe suonare come ennesima summa (o autoconfermazione?) artistica, ma senza canzoni sufficientemente solide. Svariati passaggi testimoniano di un songwriting ancora allaltezza della situazione, ma è linsieme a sembrare poco fluido, poco coeso: con il risultato che ciò che poteva suonare nuovo ed elettrizzante si scopre banalotto e inoffensivo. Il futuro potrebbe chiarire alcune ambiguità ma, per il momento, tocca moderare gli entusiasmi.
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