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R Recensione

6/10

The Decemberists

I'll Be Your Girl

Ingenerosi e maligni, sempre gli stessi, hanno già trovato il modo di definirla variamente: crisi di mezz’età, sbornia post adolescenziale, rincoglionimento senile. Tutto questo – pensate un po’ – solo per colpa di “Severed”: un brano, nemmeno lontanamente così copernicano, che ha l’ardire di convertire il consueto bordone d’organo di Jenny Conlee in un gioco synth-pop dei quattro cantoni, caricando al contempo di accenti politici l’afflato fiabesco connaturato nell’ontologia narrativa di Colin Meloy. I Decemberists alla scoperta dei sintetizzatori: ma quando mai? Ma che orrore! Chiudeteli in gabbia e gettate la chiave, per favore! Speaking of the devil, visto e considerato che si tira in ballo la memoria storica tanto più questa diventa labile e in definitiva inaffidabile, qualcosa balugina all’istante: non erano forse le stesse identiche obiezioni mosse in occasione del concept progThe Hazards Of Love”? Non abbiamo sentito i medesimi strali accompagnare il ritorno alla minimale sobrietà folkish di “The King Is Dead” e l’esaustività antologica del successivo “What A Terrible World, What A Beautiful World”? Sta a vedere che è tutta una farsa, l’ennesima.

Ingenerosi e maligni, sempre gli stessi, i pontificatori senza tempo da perdere, continuano a dimenticare (a far finta di dimenticare?) che la discografia dei Decemberists è un innodico monumento alla digressione coerente. Ovvero: ogni cambiamento di vestito è, in verità, l’esito finale – e temporalmente delimitato – di alcune tendenze già tratteggiate in lavori precedenti. Così, se di svolta prog si può parlare solamente in relazione a (e come approdo di) lussureggianti ambizioni narrative covate sin dal primissimo “Castaway And Cutouts” (“California One / Youth And Beauty Brigade”, per dire, è contenuta in quella tracklist), la nuova fase synth oriented – che poi tale, come vedremo, non è – muove da alcune propaggini di dieci e passa anni fa (“The Perfect Crime” di “The Crane Wife”, ad esempio). Certo, l’ottavo “I’ll Be Your Girl” (prodotto dal tuttofare John Congleton) persegue l’obiettivo con più tenacia, circoscrivendolo con maggiore profondità: ma pensare, per questo, di avere di fronte una band completamente nuova è illusione destinata a crollare da subito.

Interessante, anche se non originale, è la contrapposizione che il neofita potrebbe imbastire fra questo “I’ll Be Your Girl” e “The Queen Of Hearts”, il recente esordio degli Offa Rex (di fatto, una riuscita collaborazione con l’elegante voce di Olivia Chaney), alla (ri)scoperta degli standard del folk anglosassone. Interessante, dicevamo, perché l’apparente abisso formale che dovrebbe separare le due produzioni si riduce in verità ad uno stretto margine di scelta soggettiva, se non trascurabile almeno non ingombrante. L’essenza dell’iniziale, accorata torch songOnce In My Life” (che, in coda, incorpora elementi di “Barnaby, Hardly Working” degli Yo La Tengo), se si guarda oltre la soffice coltre di synth vintage che donano al brano una malinconica profondità à la Berlin, non diverge sostanzialmente da simili episodi del canzoniere di Meloy: lo schema melodico della successiva “Cutting Stone”, addirittura, va a toccare le corde della tradizione aurale britannica (dalla prospettiva di un curioso allure new romantic), per tacere poi della toccante ballata elettrica “Tripping Along” (con certi riverberi chitarristici che sembrano richiamare direttamente in causa i Dire Straits).

La contaminazione, nel merito, finisce qui. A seguire, anzi, con un’operazione di incerta cesura, scorre una rassegna di leit motif stilistici minoritari cari alla band: dalla sciarada glam-westernata a più voci di “Your Ghost” (c’è qualcosa degli Sparks di “Kimono My House”) all’esile e dimenticabile canzoncina politica dell’era Trump (“Everything Is Awful”), dall’AOR-southern con piano saltabeccante di “Sucker’s Prayer” (forse il testo migliore del disco) ad una sarcastica “We All Die Young” che sembra fare il verso a certo indie pop corale for dummies dei primi Duemila (I’m From Barcelona e compagnia danzante). La chiusura è infine affidata ad un Giano bifronte che, nella sua schizofrenia, svela moltissimo del disco. “Rusalka, Rusalka / Wild Rushes”, ennesima storia di seduzioni fatali e annegamenti, parte in sordina, in un formato di vibrante elegia appena sporcato da manipolazioni sintetiche: il cambio di passo, fulmineo, è affidato ad un jethrotulliano arpeggio prog-folk (“The Landlord’s Daughter”?), introduzione ad una cornucopia strumentale da commedia dell’arte (vi si sentono anche il violino di Gaelynn Lea e l’arpa di Mikaela Davis). Per converso la title track, un dialogo a due voci che inscena un atipico rovesciamento dei ruoli di genere, è tra gli episodi più intimi e minimali mai scritti dai Decemberists: una semplice e classicissima ballata ‘50s r’n’r, ma scritta e interpretata con gusto e perizia.

È questo, forse, il disco meno facilmente inquadrabile di tutta la carriera dei menestrelli di Portland, Oregon. Sbandierato come opera di rottura, è in realtà il “solito” album dei Decemberists: vorrebbe dirigersi in nuove direzioni, ma non lo fa con la giusta convinzione; vorrebbe suonare come ennesima summa (o autoconfermazione?) artistica, ma senza canzoni sufficientemente solide. Svariati passaggi testimoniano di un songwriting ancora all’altezza della situazione, ma è l’insieme a sembrare poco fluido, poco coeso: con il risultato che ciò che poteva suonare nuovo ed elettrizzante si scopre banalotto e inoffensivo. Il futuro potrebbe chiarire alcune ambiguità ma, per il momento, tocca moderare gli entusiasmi. 

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Voto degli utenti: 7/10 in media su 1 voto.
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C Commenti

Ci sono 2 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
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Giuseppe Ienopoli (ha votato 7 questo disco) alle 11:41 del 29 aprile 2018 ha scritto:

Un fulmine a ciel sereno! Da un bel po' aspettavo il lieto evento ... e tre anni di fecondazione sono un tempo più che congruo per stuzzicare le aspettative dell'estimatore incallito ... "a criatura" non smentisce le caratteristiche di conio anche se le connotazioni melodiche alternano complessivamente elementi futuribili con atmosfere vintage ... oserei dire anni '70, ma sono impressioni dei primi ascolti ... il disco non è di metabolismo immediato ma va ruminato e, sono sicuro, premierà i più ottimisti per non aver diffidato.

Si sa un disco dei Decemberists alla fine sarà comunque un disco dei Decemberists ... si accettano scommesse!

Ripasserò per il voto e per ritirare le poste, compresa quella del recensore.

Giuseppe Ienopoli (ha votato 7 questo disco) alle 12:38 del 21 settembre 2018 ha scritto:

... beh effettivamente il recensore non ha tutti i torti, il disco stenta ad entrare nelle grazie dell'ascoltatore ... la colpa sarà sicuramente di Trump ... comunque mai desistere e meglio non scommettere.

Sucker's Prayer&Starwatcher una spanna sopra alle altre ... passo e chiudo.