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R Recensione

6/10

Tilly and the Wall

O

A Omaha, Nebraska, tira ancora aria di festa. I cinque scatenati Tilly And The Wall, arrivati al terzo disco in quattro anni, continuano a contaminare i generi e a regalare lavori colorati e frenetici, tra un twee-pop elaborato e una folk-tronica ebbra, sempre nel nome di un selvaggio disimpegno.

La tipicità che fin dal primo album caratterizza il suono dei Tilly viene pienamente confermata in questo self-titled che ha preso il nome dalla copertina (che uscirà ogni mese con immagini diverse dentro il cerchio): le percussioni sono accompagnate, e in molti casi sostituite, dal tip-tap di Jamie Williams, con un effetto di tarantolamento diffuso. È per questo che i Tilly danno sempre quell’idea, un po’ malsana e un po’ esaltante, di una compagnia di freaks che balla sopra i tavoli in legno di taverne sperdute in mezzo alla campagna.

Dietro la band lanciata da Conor Oberst, in ogni caso, rimane una fortissima dose di melodia. Le graffiature di elettrica più aggressive che si assiepano in alcuni episodi (“Pot Kettle Black”, con riff molto White Stripes, “Blood Flowers”, “Too Excited”) non spostano, tutto sommato, il baricentro di un sound che trova nella predisposizione folk pop la sua definitiva collocazione. Folk, senz’altra aggiunta, nell’apertura bucolica di “Tall Tall Grass”; pop con tangenze elettroniche in “Falling Without Knowing”, che sembra uscita dai Goldfrapp più up-tempo.

E poi, brano dopo brano, si assiepa tutto l’eccentrico armamentario dei Tilly, con qualche sperimentazione in più rispetto ai primi due dischi: i loro cori da vecchi amici ubriachi, i loro fiati che fanno un po’ far west (“I Found You”) e un po’ banda scalcagnata di periferia (“Cacophony”: nomen omen), i loro ritornelli che intrecciano voce maschile e femminile (“Alligator Skin”) in un trionfo di tap dancing scalpitante. Sembra di aprire il vecchio armadio dei giocattoli, di sfogliare l’album dei ricordi dopo essersi scolati due bozze di vino, di rotolarsi nell’erba assieme alla maestra dell’asilo (quella carina) dopo essersi dipinti con i pennelli Giotto.

Terapeutici Tilly: non aggiungeranno niente di nuovo al panorama musicale contemporaneo, avranno il solo merito di aver fatto intersecare elementi che nessuno si sarebbe sognato di mettere insieme, ma il loro ascolto ha un effetto di freschezza non facile da trovare in giro. E tutte quelle scarpe sbattute a terra, tacco e punta, tacco e punta, conferiscono a ogni nota un tocco di sana predisposizione baccante che fa terminare tutto in un liberatorio “fuck you”. Ave O Tilly.

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