R Recensione

7/10

Vetiver

Tight Knit

Quantomeno per curiosità, cercate la parola Vetiver su Google. Del gruppo freak-folk di Andy Cabic troverete ben poco (la solita paginetta Myspace, qualcosa su wiki…), ma vi farete una bella cultura sulla coltivazione dell’omonima pianta erbacea perenne che la Banca Mondiale definisce “la più promettente tecnologia verde contro l'erosione”, grazie alle sue radici che si spingono in profondità fino a cinque metri ed hanno una resistenza pari ad un sesto di quella dell’acciaio.

Sarà un caso, ma anche le radici musicali dei Vetiver hanno origini lontane e profonde. Si notava nell’esordio omonimo del 2004 e nel successivo “To find me gone” (2006), così sedimentati di “old time music” e West Coast da attirare l’attenzione di molti; e lo dichiarava la band stessa, esplicitando le proprie influenze nell’album di cover “Thing of the past”, pubblicato meno di un anno fa. Questo quarto album, primo su Sub Pop, tratteggia una lieve ma interessante svolta nel sound della band di San Francisco. Con il dichiarato intento di fornire “una gratificazione più immediata per l'ascoltatore”, Cabic e compagni donano una nuova veste all’ indie-folk che caratterizzava le loro precedenti pubblicazioni. Nei solchi di “Tight Knit”, infatti, l’afflato magico (new weird america, lo chiama qualcuno) dell’album d’esordio si coagula in canzoni dal suono più tondo, meno dedito a riverberi psych e quindi reso più corporeo in forma pop.

Il processo evolutivo, in realtà, si percepisce solo a tratti. L’iniziale “Rolling Sea” e l’up tempo “Everyday” rimandano immediatamente a “To find me gone” e a quell’atmosfera così vicina al George Harrison solista da far smarrire la cognizione del tempo. Nessuna sorpresa neanche ascoltando i bassi morbidi di “Sister” (come se l’amico Devendra Banhart improvvisasse una cover di “Stand by me”) o le (deliziose) aperture melodiche di “Through the front door”. Il bello arriva alla traccia numero sei (“On the other side”), blues balzellante di chiara matrice ’70 (ma siamo sicuri che quello alla chitarra non sia Robby Krieger ?), nella successiva “More of this”, dall’andamento rock (se gli Strokes non fossero stati travolti dal successo, oggi suonerebbero così) e nel reggae lunare di “Another reason to go”, che solo per l’arrangiamento dei fiati vale il prezzo del biglietto. Ad operare da collante in questo caleidoscopio flower-power, la voce altera e vellutata di Cabic, mai così a suo agio nel (re)interpretare una nuova “Summer of Love”, ancora a San Francisco, quarantadue anni dopo.

Che magari sarà solo una suggestione, ma sul finale (lisergico e definitivamente psichedelico), di “At forest edge”, si ha la sensazione che il cielo si affolli di morbide e gommose bolle viola e che l’aria si profumi di un pungente odore fumoso. Come se qualcuno stesse bruciando dell’erba. Non il vetiver. Quell’altra.

V Voti

Voto degli utenti: 6/10 in media su 2 voti.
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george 7/10
krikka 5/10

C Commenti

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george (ha votato 7 questo disco) alle 14:30 del 14 febbraio 2009 ha scritto:

mi sembra solo un po piatto...ma piacevole